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Siamo tutti degli schizo?

Violenza psichiatrica e cancellazione del soggetto
Sara Fontanelli
19 ottobre 2022

ABSTRACT

This article investigates, from a psychoanalytic, phenomenological and anti-psychiatric perspective, the conditions under which madness is excluded from the egoic constitution and consciential status of the cogito. Drawing on the theoretical contribution of Franco Basaglia's thought and contemporary anti-psychiatrists such as Pietro Cipriano (La società dei devianti) and Lorenza Ronzano (La variabile umana), the effects of the symbolic power of psychiatric discourse on the lives of subjects and the implications that these effects have on processes of subjectivation are shown, starting with the problematic nature of diagnosis and the relationship it establishes between temporality and death.

KEYWORDS

Anti-psychiatry, Schizophrenia, Unconscious, A-theoretical diagnosis, Depression.

Nelle prime pagine di Storia della follia nell’età classica (1961) Michel Foucault attribuisce al cogito cartesiano un ruolo strategico, condensandovi la responsabilità della separazione tra ragione e follia; così lo rilegge Pier Aldo Rovatti ne La posta in gioco: «Se penso sono in me, dunque non sono folle. Potrò smarrirmi nell'errore, degradare nella condizione del de-mens, avvolgermi nell'illusione, ma l'erranza del cogito ha un limite, una soglia di compatibilità oltre la quale sta la notte dell'a-mens, di colui che non ha mente, che è al di là del cogito e che perciò non ha diritto di essere chiamato soggetto».1 Il cogito istituisce la soglia, il margine oltre il quale l’attività di pensiero si snatura – «a meno che, forse, non mi paragoni a quegli insensati»2 –, ma al contempo, implicandosi in una distinzione, si complica con la follia, la quale cade «nel nostro suolo, per sparirvi senza dubbio, ma per prendervi radice».3 L’atto di esclusione della follia dal cogito, e dunque di cancellazione, coincide, paradossalmente, col suo resto nel pensiero, poiché vi è sempre traccia di quanto si cancella. Di quest’atto di violenza originaria permane una relazione, per cui la follia diventa «forma relativa alla ragione»4 e, alla luce dell’esclusione dell’improprio che ha oramai fondato il proprio, «follia e ragione entrano in una reazione eternamente reversibile che fa sì che ogni follia ha la sua ragione che la giudica e la domina, e ogni ragione la sua follia nella quale essa trova la sua verità derisoria. Ciascuna è la misura dell’altra, e in questo movimento di riferimento reciproco esse si respingono l’un l’altra, ma si fondano l’una per mezzo dell’altra».5 Il monito di Foucault, ovvero di colui che per primo ha individuato nel luogo del cogito il principio di follia, consiste nel rinvenire le tracce di tale inestricabilità in ogni gesto: questionare l’ovvietà con cui si associa il cogito al pensiero razionale, questionare l’ovvietà con cui la follia è ritenuta essere fuori dal cogito e non a esso interna, in un rapporto di intima estraneità.

Sette anni fa in una calda estate torinese moriva Andrea Soldi, durante un Trattamento sanitario obbligatorio: il suo psichiatra e tre vigili fecero irruzione nel giardino di piazza Umbria, dove sedeva sulla sua panchina, luogo del suo tempo soggettivo e della sua singolarità. Immobilizzato, ammanettato, stretto al collo in una morsa che lo portò in ospedale, cianotico, preda di una crisi respiratoria mortale: ucciso per aver rifiutato, da qualche mese, di assumere psicofarmaci. A vent’anni, aveva ricevuto una diagnosi psichiatrica di schizofrenia. Nella morte di Andrea è implicata una mentalità che non vede l’altro e lo invisibilizza in quanto portatore di significati di un’intersoggettività condivisa, da lui abitata allo stesso titolo di chi lo esclude armandosi del filtro del potere-sapere psichiatrico. Nella morte di Andrea, ancor peggio, è implicata la mentalità dominatrice, autoritaria e io-cratica secondo cui un corpo in crisi su una panchina è improduttivo e inutile, a maggior ragione se c’è il rischio che “dia di matto”. Due quindi le paure inconfessate della violenza psichiatrica: da un lato l’improduttività del corpo sofferente, preso nel cosiddetto disagio psichico, dall’altro la pericolosità sociale, la compromissione di quella rete da cui l’altro è stato già preliminarmente escluso in quanto tale; dunque non può che ritornarvi in forma di rimosso, inquietandoci. Sedere sulla propria panchina significava invece, per Andrea, percorrere possibilità inedite rispetto alla chiusura nella “gabbia chimica”6 veicolata dal Tso e nella gabbia significante veicolata dalla perentorietà della diagnosi. Perentorietà rispetto alla quale, nella psicoanalisi di orientamento lacaniano, si sceglie di insistere sugli effetti dell’essere incisi dal linguaggio e, nel coté più teoretico, sulla funzione trascendentale che il linguaggio riveste rispetto all’essere parlante: Jacques Lacan, pronunciando i suoi statuti dalla sede clinica, sa cosa significhi per un soggetto costituirsi nelle proprie strutture di desiderio, pulsionali, storico-simboliche, entro il trascendentale del linguaggio. Pertanto, agganciare l’altro con un significante che lo immobilizza – quale “sei schizofrenico” – oltre a produrre effetti reali sul corpo, determina una riconfigurazione radicale delle condizioni con cui il soggetto abita il proprio mondo, una riscrittura preliminare – a posteriori – delle categorie linguistiche e affettive della sua rinnovata datità. Un significante marchia il corpo e vi instaura il negativo dell’altro da sé che lo parla.

La vicenda clinica di Andrea testimonia che, prima ancora di essere ucciso dalla stretta mortale di un esecutore del suo Tso, era stato ucciso dalla morsa del significante “schizofrenico”, e dalla condanna che questo comporta nel discorso sociale. Più nello specifico, lo spartiacque nel travaglio psichico di Andrea è dovuto al passaggio da una psichiatra che lo supportava empaticamente e con la parola, permettendogli così di abitare il legame, a uno psichiatra, ad oggi condannato per omicidio colposo, che lo liquidava una volta al mese dopo qualche minuto con un’iniezione depot. Ma, proprio come il visionario Mario-Maria (Mieli) de Il risveglio dei faraoni,7 anche lui “affetto” da una diagnosi di schizofrenia,8 Andrea si ritaglia isole di resistenza in una scrittura diaristica, impregnata di metafore e surrealismo, a tratti metafisica, panpsichica, con una prosa che dà respiro e dischiude quegli altrove che l’occhio assuefatto alla monotonia nevrotica non vede: «Languido come il fiume in corsa. Non cercare un’altra entità. Cercalo in te, come un arcobaleno che segue i suoi colori lasciandoli evaporare, è un punto interrogativo la nostra fisicità su questa terra, perché non credere ai propri occhi?»; «una foglia attaccata a un ramo insegue il suo destino guardando dall’alto della sua immaginazione. Lei un giorno sa di doversi staccare e perdere i colori che la rendono elegante. Il nascere di un evento che non ha più fine. Un tempio a cui appartiene per essere e non avere, ma credere», «non si ama se non si soffre».9 Viene dunque da chiederci cosa le maglie di contenzione psichiatriche possano cogliere del Reale di un soggetto, qui simbolizzato in una riflessione metafisica estranea ai più.  Nella citata Prefazione a La variabile umana della consulente filosofica Lorenza Ronzano,10 l’antipsichiatra Piero Cipriano chiarisce la natura di «pseudoscienza debole» della psichiatria: è saggio abbracciare un anarchismo metodologico feyerabendiano per non cadere vittime del discorso del medico-autorità, dello psichiatra-autorità, come pezzi di carne lapidati da pietre, ad opera di «apprendisti stregoni che giocano a dadi col destino delle persone».11

Ronzano ha avuto in comune con Andrea una diagnosi di schizofrenia e, di diverso, la scelta di rigettare il significante-padrone che la voleva paziente schizofrenica, assoggettata a vita al regime dell’antipsicotico, della diagnosi invalidante, della scansione tetra delle visite dal «tecnicopsi», ossia da quella «macchina-internante-esseri-umani»12 mossa dalla spinta autoritaria e seriale a renderla uno tra i «tonni inscatolati nel circuito della malattia mentale e della cura».13 Ronzano rifiuta di essere murata dalle ripercussioni dell’antico paradigma kraepliano, che la vuole inguaribilmente schizofrenica, e fugge dallo studio, lasciando il potere in assenza di oggetto e dunque di presa. Da questo smarcamento iniziale, segue l’attività di consulente filosofica in reparti psichiatrici degli ospedali del torinese. Perché la consulenza filosofica in psichiatria? Per ridare postura attiva al “consultante” che, proprio come l’“analizzante” della pratica analitica, è a lavoro sul proprio soffrire e non è paziente che attende – in forma quasi di grazia dal medico-dio che sa la formula della guarigione – un’ortopedizzazione dei contorni malati della sua psiche che cede, non sta più a ritmo (o ne cerca un altro). Trovare un consulente filosofico, piuttosto che uno psichiatra inteso come «psico-poliziotto specializzato»,14 in reparto, può significare ricentrare il vitale della propria sofferenza soggettiva senza ricorrere alla triade angosciante diagnosi-farmaco-ricovero; trovare nell’altro il nesso intersoggettivo necessario al ripristino delle strutture affettive condivise. Cosa c’è di fenomenologicamente descrittivo in diagnosi quali “depressione”, “disturbo bipolare”, “disturbo borderline”? La corrispondenza significante-definizione è meramente tautologica e nulla aggiunge di rilevante sul soggetto che vive il dolore in questione. Nel caso della depressione, il potere del significante medico consiste nel fissare una soglia normativa di produttività e umore positivo, al di sotto della quale si è performativamente dichiarati depressi: «la diagnosi di depressione è un abborracciato giro di parole per imporre categoricamente uno stato di cose».15 C’è un maggiore rigore scientifico e eziologico nell’attestare la presunta “depressione” come stato contingente e transeunte dal nome indefinibile, causalmente dettato da solitudine, amori impossibili, motivi pratici, occupazionali, perdita di senso, sui quali la psichiatria deve umilmente gettare la spugna: aggiungervi una dipendenza chimica da antidepressivi non fa che raddoppiare l’insoluta crisi iniziale. L’universalità priva di contenuto semantico del gergo psichiatrico non è inoltre in grado, per ragioni strutturali di categorizzazione, dunque di semplificazione e riduzionismo sistemico, di includere l’ambiguità, l’ironia e lo spostamento metaforico: un imprenditore in rovina dichiara provocatoriamente di volersi cavare un occhio e venderlo a trentamila euro per riavere indietro parte dei soldi persi dopo il fallimento della ditta, per questo intermezzo ironico viene dichiarato un «depresso esogeno con principi psicotici».16

Nel suo La società dei devianti, scrive Piero Cipriano: «Un grande attore come Robin Williams si uccide e tutti dicono che era depresso, e prendeva antidepressivi. Un grande narratore come David Foster Wallace pure si uccide, pure lui depresso, lui pure antidepressivi. Un giovane pilota schianta un aereo con centoquarantanove persone a bordo e tutti dicono che era depresso, e prendeva antidepressivi»;17 dopo una lunga lista di depressi, che prendono antidepressivi, Cipriano chiede cosa sia la depressione, rara fino agli anni Cinquanta e adesso tra le “malattie” più diagnosticate, e ne ricava, anche in questo caso, risposte tautologiche e affatto esaustive. Sul piano biologico siamo fermi a una spiegazione in voga negli anni Sessanta: basso livello dei neurotrasmettitori del sistema nervoso centrale, serotonina e noradrenalina; quanto alle ipotesi psicologiche, esse sono state scalzate dalla “bibbia diagnostica degli psichiatri”, il DSM, di cui il III (1980), con particolare riferimento, ha segnato l’inaugurazione di una psichiatria ateoretica, ossia deliberatamente estranea a quadri teorici, interpretativi, ermeneutici sui disturbi: per essere depressi è sufficiente manifestare  per più di due settimane cinque dei nove sintomi riportati nel DSM, che vanno dall’umore depresso all’agitazione o al rallentamento psicomotorio fino a diminuite capacità di concentrazione, pensieri di morte o di suicidio. La depressione conseguente al lutto non è vissuta né metabolizzata, ma proceduralizzata: da un anno (DSM-III, 1980), a due mesi (DSM-IV, 1994), a sole due settimane (DSM-V, 2013). Alcun diritto a fermarsi, a indugiare nel tempo soggettivo e nell’infinito interiore del dolore; ripudiata, contestualmente, l’indagine delle cause, la naturalità della melanconia,18 la possibilità di sostare, con Andrea, su una panchina a districare le trame della crisi o annodarle ulteriormente, o di dire, à la Bartleby, preferisco di no, e fare epoché degli imperativi prestazionali superegoici.19 Che ne è del soggetto? A caratterizzare in maniera evidente le etichette diagnostiche è la capacità dello psichiatra di tirarsi fuori, di non essere parte del campo relazionale in cui la diagnosi si produce, contravvenendo così a un principio preliminare e trascendentale che coincide con la possibilità di essere soggetti, e con la soggettività stessa, ossia il posizionamento. Il prelevamento del “dato medico” avviene in un setting che è già connotato in senso interpretativo, per via dell’adesione a un quadro teorico di riferimento. Il paziente-dato incanalato prima in una diagnosi significante, poi in una cartella clinica e infine in un iter farmacologico, è ridotto alla datità del suo sintomo per il fatto stesso che lo psichiatra non si sia chiamato dentro l’osservazione, ossia non abbia messo a tema la propria soggettività, che lo smarca necessariamente dalle poche caselle nosografiche dei manuali, insufficienti a render conto in modo rigoroso della singolarità del soggetto che soffre: ciascuna allucinazione psicotica è a sé, inassiminabile al vissuto percettivo e immaginativo dell’altro; nonostante le tipicità rinvenute, due esperienze non sono accorpabili sotto il gergo dell’universalità medica. Al dato medico è intrinseca – e non rimovibile – una perturbazione, connessa al carico di osservazione di chi lo preleva e, prelevandolo, lo produce: lo psichiatra che rimuove tale passaggio sotto il filtro di una scientificità fittizia compie un errore di metodo, poiché la distorsione ineliminabile che coincide con la formulazione stessa della diagnosi è un effetto del suo fantasma, ossia della struttura micro-narrativa inconscia con cui egli osserva, si posiziona, e filtra il proprio mondo di soggetti.

La centralità di una messa a tema del soggetto che osserva, e che dunque partecipa della diagnosi, è ribadita da Franco Basaglia in Che cos’è la psichiatria,20 col richiamo alla sartriana Critica della ragione dialettica: «la posizione dello sperimentatore de-situato tende a mantenere la Ragione analitica come tipo di intelligibilità; la sua passività di scienziato rispetto al sistema gli rivelerebbe una passività del sistema rispetto a se stesso. La dialettica si svela solo a un osservatore situato all’interno, cioè ad un ricercatore che viva la propria indagine […] come praxis particolare di un individuo, definito dalla sua avventura storica e personale in seno ad una storia più vasta che la condizioni».21 Applicando la posizione di Sartre e Basaglia al contesto psichiatrico contemporaneo, che ne è dello psichiatra come osservatore situato? Lo psichiatra sperimenta la propria “indagine” – sarebbe meglio parlare di mera applicazione o ricopiatura di un’etichetta diagnostica stagnante e già affibbiata, contraria all’uno-per-uno – come un vissuto? Vi è praxis particolare nella sua scelta clinica? Tale scelta è messa in relazione con le catene causali, simboliche, politiche di «una storia più vasta che la condizioni»? L’esito negativo di queste domande ci porta a collocare la psichiatria non sul versante dei processi di soggettivazione, delle pratiche di desiderio e di emancipazione del soggetto, atta a ri-costituirne lo stare al mondo nei termini del «vitale della vita», bensì sul versante dell’oppressione e dell’annichilimento di una pratica e di una teoria del soggetto.

Il soggetto come point de repère nella follia, il soggetto della follia si dà solo in un campo relazionale di cui è condizione l’Altro che ascolta, che crea nesso vitale e circolazione di un’affettività intuitiva, in-questionabile, diremmo, in termini fenomenologici, pre-categoriale. Ciò rinvia a strutture comuni del sentire che sono le basi della pre-comprensione e i costituenti di un sistema di rimandi intersoggettivo: tali condizioni previe sono “compromesse” da quella particolare forma di malattia mentale che è la sottrazione dell’altro. Proprio questo sembra volerci dire Wolfang Blankenburg, psichiatra a orientamento fenomenologico, nel saggio La perdita dell’evidenza naturale:22 un’alterazione di tali strutture nelle cosiddette schizofrenie paucisintomatiche comporta consecutive alterazioni del rapporto col mondo, col tempo, con la capacità di temporalizzare e con la propria costituzione intra-psichica e intersoggettiva. All’origine vi è un altro che si sottrae alla presa del soggetto che ne condivide le strutture, da cui una compromissione a livello basale (io-altro) del rapporto col mondo che comporta una «esplosione della dialettica evidenza-non evidenza» e la perdita della capacità di abitare le zone preriflessive del rapporto. La crepa del sentire si risana attraverso l’altro che si è sottratto: serve, insomma, ricreare il rapporto, perché ci sia speranza di cura.  


1 Nella ricognizione delle “peripezie del cogito” e dei trattamenti teoretici riservati alla nozione di follia, Rovatti attribuisce lo snodo centrale della sua argomentazione all’internamento della follia, così com’è isolato con lucidità dal testo foucaultiano: si segrega qualcosa che è già dentro. Cfr. P.A. Rovatti, La posta in gioco. Husserl, Heidegger, il soggetto, Bompiani, Milano 1987, p. 41.

2 R. Descartes, Meditazioni metafisiche. Obbiezioni e riposte, Laterza, Bari 1954, p. 20.

3 M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 2012, p. 53.

4 Ivi, p. 43.

5 Ibidem.

6 In questa prospettiva, è utile il rinvio ai contributi e all’attività clinico-politica di Piero Cipriano, medico, psichiatra, psicoterapeuta, di formazione cognitivista ed etnopsichiatrica che lavora attualmente in un SPDC romano, dopo anni di servizio presso dipartimenti di salute mentale, dal Friuli alla Campania. Cfr. P. Cipriano, Prefazione. La variabile psichiatrica, in L. Ronzano, La variabile umana, Elèuthera, Milano 2019, p. 4.

7 M. Mieli, Il risveglio dei faraoni, Cooperativa Colibri, Milano 1994.

8 Cfr. Trascrizione dell’intervento di Mieli al V Congresso nazionale del “Fuori!”, in Fuori!, V, 1976, 16, pp. 16 e sgg: «sono stato definito uno schizofrenico paranoide, sono stato in ospedale, in manicomio per questo motivo».

9 Dai diari di Andrea Soldi, confluiti in M. Spicuglia, Noi due siamo uno. Storia di Andrea Soldi, morto per un TSO, ADD Editore, Torino 2021.

10 L. Ronzano, La variabile umana, cit.

11 Cfr. P. Cipriano, Prefazione, cit., p. 12.

12 Ivi, p. 4.

13 Ivi, p. 6.

14 Ivi, p. 5.

15 L. Ronzano, La variabile umana, cit., p. 21.

16 Cfr. ivi, pp. 15-16.

17 P. Cipriano, La società dei devianti, Elèuthera, Milano 2016, p. 43.

18 Cfr. S. Freud, Lutto e melanconia, in Id., Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti 1915-1917, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 102-121.

19 “I prefer not” è linguisticamente un inedito, scolla il rapporto parola-cosa, non ha alcuna referenza specifica, è un enunciato psicotico, cfr. G. Deleuze, Bartleby o la formula (1989), in G. Deleuze, G. Agamben, Bartleby, la formula della creazione (1993), Quodlibet, Macerata 1998.

20 F. Basaglia, Che cos’è la psichiatria, Baldini&Castoldi, Milano 1997.

21 J. P. Sartre, Dialettica dogmatica e dialettica critica, in Id., Critica della ragione dialettica. Teoria degli insiemi pratici, Il Saggiatore, Milano 1990, p. 163.

22 W. Blankenburg, La perdita dell’evidenza naturale. Un contributo alla psicopatologia delle schizofrenie pauci-sintomatiche (1971), Cortina, Milano 1998.

BIBLIOGRAFIA

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Blankenburg W., La perdita dell’evidenza naturale. Un contributo alla psicopatologia delle schizofrenie pauci-sintomatiche (1971), Cortina, Milano 1998.

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