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Intelligenza, corporeità, desiderio

Contributi a un'analisi filosofica circa il ruolo della mano
Jacopo Gusmeroli
21 dicembre 2022

Papadopoulos, Alexander (Fotografo). (2022, 3 settembre). Michael [immagine digitale]. Estratto da http://www.alexanderisak.net

ABSTRACT

The following paper aims to shed some light on the value and the role of the hand throughout human existence. We will approach the topic from a social perspective by analyzing G.H. Mead’s thought, who describes the hand as a tool for the knowledge of physical objects and also as a mean of expressing significant symbols. These insights will lead us to J.P. Sartre’s considerations, which will be examined under the different perspective of the body for-itself, the body for-other and even in sexual desire. Following these considerations, it will be possible to understand from different points of view the meaning and the function of the hand as a critical organ for human existence.

KEYWORDS

Hand, Mead, Sartre, Language, Desire.

La mano umana è una parte anatomica determinata di una totalità organica, incarnata in un universo di relazioni da cui trae significato; è uno strumento attraverso cui maneggiamo gli utensili e un organo indispensabile per la maturazione cognitiva dell’homo sapiens. Emerge così fin dalle prime battute che quello di “mano” è un concetto polimorfo e stratificato, sotto cui si sussumono diversi contenuti. Essa è, al contempo, un organo prensile dotato di un significato biologico, uno strumento nel mondo e un oggetto culturale che condensa nei suoi tessuti innumerevoli riferimenti a diverse mitologie: le mani protese dell’epiclesi cristiana, la mano di Fatima degli islamici, o la Mano dei Filosofi degli antichi compendi alchemici.

L’obiettivo sarà qui quello di indagare la mano nel suo significato tanto individuale quanto sociale. Ciò sarà reso possibile attraverso il ricorso a due autori profondamente diversi, il cui legame si rivela spesso difficile e macchinoso, ma le cui riflessioni, se prese separatamente, possono fornire al lettore degli stimoli in merito alla tematica considerata. Sarà dunque analizzato, anzitutto, il pensiero di George Herbert Mead, insistendo sul valore gnoseologico delle mani in relazione alla conoscenza delle cose fisiche, al linguaggio e alla “conversazione di gesti”. Verrà poi preso in considerazione il percorso di Jean-Paul Sartre, ponendo il focus sulla sua complessa analisi della corporeità, per giungere ad un esempio concreto di rapporto intersoggettivo in cui la mano detiene un ruolo centrale, ovvero il desiderio e la carezza. La scelta dei due autori si motiva così a causa dell’importante contributo di Mead allo studio della mano in relazione allo sviluppo dell’intelligenza umana; un’analisi, questa, che ha il pregio di insistere sulle immediate implicazioni sociali che tale evoluzione cognitiva comporta. Sartre sarà invece presentato come portavoce di un’elaborazione concettuale in grado di ampliare l’insegnamento meadiano con una nuova e fondamentale dimensione teorica capace di gettare un ponte tra la psicologia sociale, l’ontologia e la fenomenologia. Gli approcci dei due filosofi, per quanto metodologicamente distanti, saranno in grado di integrarsi in una visione differenziale che consideri entrambi i contributi come parti egualmente necessarie per la comprensione del significato filosofico della mano. Il senso di questo confronto non affonda quindi le sue radici in una superiore unità fusionale resa possibile dal mutuo raffronto dei rari punti di contatto dei due pensatori. Al contrario, il suo valore consiste nella coesistenza delle due prospettive che, pur restando su binari separati, fornirà una visione più ampia del tema trattato. La completezza dell’analisi risulterà così dal confronto dell’approccio metodologico impiegato dai due autori che, per quanto riguarda Mead, trae la sua genesi dalla relazione fra l’individuo e l’ambiente sociale, mentre in Sartre si origina dalle strutture proprie della soggettività per giungere attraverso esse alle interazioni concrete con gli altri individui.

L’analisi prenderà le mosse dal pensiero di G.H. Mead, celebre filosofo americano ricordato come uno dei primi esponenti della psicologia sociale. Un’opera fondamentale all’interno della sua produzione è sicuramente Mente, Sé e Società – testo pubblicato postumo a cura dei suoi studenti e basato sulle sue lezioni – che verrà qui analizzata mantenendo il focus sul ruolo della mano come percettrice di stimoli e propagatrice di senso all’interno delle conversazioni di gesti significativi. Emergerà così che l’oggetto di ricerca è implicato nei processi di comunicazione, intrattenendo relazioni complesse e stratificate con alcuni dei concetti fondamentali dell’opera meadiana, come ad esempio la Mente e il linguaggio.

La mano viene descritta da Mead anzitutto come recettrice fondamentale di stimoli percettivi derivanti dagli oggetti fisici e come uno strumento attraverso cui gli individui giungono a manipolarli. Mead afferma infatti che «l’organo essenziale per la conoscenza delle cose fisiche è la mano [attraverso cui] maneggiamo una sostanza fisica».1 A differenza dei cani, o della maggior parte degli animali, per cui non vi è una mediazione fra il cibo che mangiano e la bocca attraverso cui lo ingeriscono, gli esseri umani distinguono l’oggetto fisico “cibo” e il compimento dell’atto, in questo caso la nutrizione, grazie all’attività mediatrice delle mani. Tramite tali organi prensili l’essere umano maneggia la sostanza fisica «che si presenta fra l’inizio dell’azione e il suo compimento finale. In questo senso si tratta di un universale».2 Tale universalità acquisisce il suo significato in quanto il contatto disvela una pluralità di attributi dell’oggetto che, seppure possano essere interpretati in modo divergente da diversi individui, si riferiscono a una stessa sostanza, ovvero a cose fisiche che sono comuni e universali.3 È dunque anche attraverso il contributo delle mani, «di grandissima importanza per lo sviluppo dell’intelligenza umana»,4 che gli esseri umani giungono a percepire e a conoscere l’oggetto fisico, definito da Mead come «un’astrazione che noi ci costruiamo in base alla risposta sociale che diamo alla natura»5 e che, attraverso i sistemi di misura, definiamo oggettivamente. «In questo senso [l’umanità] giunge a rendere possibile una caratteristica comune, all’interno della quale i sé possono agire»,6 assumendo un atteggiamento sociale nei confronti della realtà circostante. L’atteggiamento verso gli oggetti del mondo fisico, dunque, si rivela di natura sociale.7 Mead, in questo modo, descrive le mani come un importante veicolo percettivo di qualità comuni, oltre che come un organo attraverso il quale maneggiamo e conosciamo gli oggetti fisici. Per il filosofo americano, le cose fisiche posseggono delle qualità interpretabili in modo diverso dai vari soggetti, come ad esempio il colore e l’odore. Tali caratteri, che potremmo definire attributi, vengono percepiti come inerenti a una sostanza fisica che possiamo maneggiare.8 In questo senso, le qualità affettive possono assumere forme che rappresentano «un’esperienza accessibile solo a singoli individui, ma ciò che la mano tocca è qualcosa di universale».9

Oltre ad essere fondamentale per la conoscenza degli oggetti fisici, la mano ha un’importante funzione nella comunicazione. Nella riflessione meadiana, infatti, il discorso e la mano appaiono come condizioni di esistenza della società. Prima di arrivare a comprendere il senso di tale affermazione, è però necessario illustrare il ruolo che il “gesto significativo” e la comunicazione rivestono nella produzione del filosofo. Con il termine “gesto” Mead intende gli «inizi degli atti sociali che costituiscono degli stimoli per le risposte delle altre forme».10 All’interno dei tanti gesti presenti nella relazione fra gli individui, è possibile isolare dei “gesti significativi” che divengono condizione di esistenza della comunicazione. Il “gesto significativo” è così un gesto che esprime il simbolo inteso dall’emittente facendolo giungere al destinatario.11 Esso, infatti, evoca una risposta corrispondente nella forma altrui (anche se non necessariamente lo stesso significato) e quando ciò si verifica gli individui iniziano a comunicare. In altre parole, il «gesto è quella fase dell’atto individuale nei cui riguardi si verifica l’aggiustamento degli altri individui nel processo sociale di comportamento».12 Un gesto diviene poi simbolo significativo quando «esprime un’idea che lo presuppone e fa sorgere, contemporaneamente, la stessa idea nell’altro individuo».13 È allora interessante notare che «l’esistenza della mente o dell’intelligenza è possibile solo in termini di gesti, in quanto simboli significativi: infatti solo in termini di gesti che siano simboli significativi, può realizzarsi il pensiero che è semplicemente una conversazione internalizzata o implicita dell’individuo con se stesso attuata per mezzo di tali gesti».14

Nonostante il gesto vocale occupi un ruolo privilegiato in questo tipo di conversazione, non bisogna trascurare che anche la mano si rivela propagatrice di senso, attraverso un linguaggio non verbale che contribuisce alla comunicazione. Citando infatti il compendio introduttivo di Charles W. Morris a Mente, Sé e Società, i gesti «significano le fasi successive dell’atto conseguente e, secondariamente, gli oggetti implicati: la mano serrata significa il pugno, la mano protesa significa l’oggetto da raggiungere».15 Così, giungendo all’esempio addotto dallo stesso Mead, nella conversazione di gesti «in un certo senso il gesto sostituisce l’atto nella misura in cui esso influenza l’altra forma. La minaccia di violenza, come quella espressa da un pugno minacciosamente serrato, rappresenta lo stimolo per il quale l’altra forma si prepara alla difesa o fugge».16 Per il filosofo americano, quindi, la mano che si serra in un pugno chiuso cela dietro di essa il significato stesso dell’attacco e, nella misura in cui il gesto suscita tale idea nella forma, può essere considerato come significativo del pericolo stesso.

Esplicitato questo importante snodo argomentativo, è possibile ora capire in che senso nel pensiero di Mead «il discorso e la mano procedono insieme nello sviluppo dell’essere sociale umano».17 Oltre al grande valore del linguaggio e della comunicazione, Mead identifica una seconda tappa fondamentale nello sviluppo cognitivo, ovvero «l’uso della mano per l’isolamento delle cose fisiche».18 Nella sua prospettiva, infatti, per il completo sviluppo del nostro sistema cognitivo è necessaria la coscienza di sé, ma vi deve essere «qualche fase dell’azione che si ferma prima del completamento se quell’azione deve svilupparsi in un modo intelligente, e il linguaggio e la mano forniscono il meccanismo necessario».19 Noi tutti, insomma, «condividiamo l’uso della lingua e delle mani, abbiamo una coscienza e viviamo in un mondo di cose: è in tali termini di mediazione che si sviluppa la società umana».20

Possiamo quindi dire che la mano, sebbene molto spesso sia un argomento trascurato nella produzione di Mead, ricopre nella sua opera una posizione centrale: essa è infatti uno dei veicoli della comunicazione significativa e un mezzo di percezione delle qualità universali degli oggetti fisici, oltre che uno degli elementi mediatori attraverso cui si sviluppa la società umana.

Mead torna un’ultima volta sul concetto della mano nel terzo saggio supplementare di Mente, sé e società intitolato Il sé e il processo di riflessione, concentrandosi questa volta sulle esperienze di contatto. Queste esperienze rappresentano per il filosofo un vero e proprio compimento per le azioni animali, mentre «la mano dell’uomo, fornisce un contatto immediato che è molto più ricco di quello […] dell’animale. Gli utensili dell’uomo sono elaborazioni ed estensioni delle funzioni delle sue mani».21 Emerge così la figura di una mano come mezzo creatore degli utensili stessi, attraverso cui l’individuo riesce a trascendere i suoi limiti. I contatti manuali dell’essere umano «forniscono una moltitudine di stimoli diversi ed una moltitudine di modi diversi di fare le cose».22 Le mani si caricano in questo modo di un significato al tempo stesso isolante (non più solo per gli oggetti fisici, ma anche per gli stimoli) e creativo (per quanto riguarda gli utensili), entrando in una nuova dimensione d’essere. Esse diventano il medium utilizzato nella costruzione degli utensili e uno strumento di selezione degli stimoli.

È importante dunque sottolineare come la mano, nell’impalcatura teorica meadiana, concorra, attraverso la comunicazione, all’insorgere della Mente e del Sé, concetti relazionali che, senza gesti significativi, non sarebbero concepibili.23

Ai fini di ampliare l’analisi, si svilupperà ora il confronto con un’altra costellazione di concetti che trova la sua espressione in una delle opere più importanti della filosofia novecentesca, ovvero L’essere e il nulla di Jean-Paul Sartre. Questo testo, infatti, è significativo per la sua complessa e multiforme trattazione della sfera corporea. Procedendo con ordine, dunque, si rivelerà necessario affrontare passo per passo l’analisi della corporeità nelle tre dimensioni ontologiche descritte dall’autore, ovvero il corpo per-sé, il corpo per-altri e la terza dimensione, che risulta dal compenetrarsi delle prime due.24

È importante da subito precisare che, nella filosofia sartriana, «l’essere e il mondo sono degli esseri relativi e il principio del loro essere è la relazione».25 “Essere”, per la realtà umana, significa «essere-là, cioè là sulla sedia, là a quel tavolo, là in cima a quella montagna, con quelle dimensioni, quell’orientamento ecc.».26 Il soggetto, così, si trova in un mondo che gli appare in ordine: un ordine «che sono io in quanto il mio nascere lo fa necessariamente esistere, e che mi sfugge in quanto io non sono il fondamento né del mio essere né di un tale essere».27 È quel che pertiene al corpo sul piano del per-: esso è la «forma contingente che assume la necessità della mia contingenza»,28 quale corpo vissuto che non si presenta mai come un dato che il soggetto può conoscere, in quanto viene continuamente fuggito nullificandosi. Dal punto di vista del per-, il corpo è insomma «il sorgere contingente di un orientamento nell’infinita possibilità di orientare il mondo […] è ciò che tutto mi indica e che non posso cogliere per principio, perché è ciò che sono».29 Il corpo per-sé è un oggetto vissuto su cui sono incapace di prendere un punto di vista, è il centro da cui si originano le mie distanze con gli oggetti del mondo e che purtuttavia non posso conoscere a livello oggettuale, in quanto è ciò che sono. Esso è «lo strumento che non si può utilizzare per mezzo di un altro strumento, il punto di vista sul quale non posso più prendere dei punti di vista».30

Dal momento della sua nascita, il corpo per-sé è inoltre inserito in un mondo che appare come «un enorme abbozzo di tutte le mie azioni possibili»31 e, più precisamente, come un’oggettività articolata che rimanda all’infinito dei complessi utensili. Ogni strumento rimanda infatti ad un altro strumento, che appare orientato verso un centro di riferimento necessario, ma mai dato e continuamente indicato a vuoto. Quando percepiamo un chiodo, esso rimanda al martello e quest’ultimo alla mano che potrebbe utilizzarlo. Nell’ottica sartriana, però, è solo in quanto l’individuo deve piantare i chiodi per altri che la mano diviene uno strumento che egli utilizza e supera verso le sue potenzialità. In questo modo, «la mano dell’altro mi rimanda allo strumento che mi permetterà di usare questa mano».32 La mano per-sé, infatti, è impossibile da cogliere, in quanto elemento vissuto di una totalità vissuta. Nell’atto dello scrivere, ad esempio, non ci è dato cogliere la mano che dirige lo strumento, ma solo la penna che scrive. Il soggetto, in altre parole, utilizza un utensile per tracciare dei simboli significativi e non la sua mano per tenere la penna: «la mano è [in questo caso] solo l’utilizzazione della penna».33 In questo senso, «la mano è insieme il termine inconoscibile e inutilizzabile che indica l’ultimo strumento della lista […] e, insieme, l’orientamento di tutta la serie».34 La mano che io sono come parte di una totalità organica e vissuta è allora in un certo senso svanita, perdendosi nel sistema complesso di “utensilità” come «termine dei rimandi e loro sbocco».35

Ben diversa appare la struttura della mano nel corpo-per-altri. L’Altro, infatti, si presenta quale sistema coerente di rappresentazioni irraggiungibili e come «la negazione radicale della mia esperienza, perché è quello per cui io sono non soggetto, ma oggetto».36 Altri è «l’altro, cioè l’io che non è me. Cogliamo quindi una negazione come struttura costitutiva dell’essere-per-altri»,37 dove con “essere-per-altri” ci si riferisce a un rapporto fra la mia coscienza e quella dell’alter-ego «nella quale deve presentarmisi direttamente come soggetto quantunque in legame con me».38 Altri, dunque, è colui che io non sono e dal quale mi separa un nulla dato, «una distanza assoluta e passivamente sentita»,39 quale fondamento della nostra relazione. Percepire l’Altro come essere umano significa dunque percepire «una pura disintegrazione delle relazioni che io percepisco tra gli oggetti del mio universo»,40 in quanto fuga continua delle cose verso un termine che «colgo come oggetto a una certa distanza da me e insieme mi sfugge in quanto distende intorno a sé le proprie distanze».41

L’Altro è in quest’ottica un Essere che, attraverso il suo sguardo, mi deruba del mondo e mi percepisce come oggetto, possedendo il segreto del mio Essere che io percepisco attraverso la vergogna. Il corpo dell’Altro nel mondo mi appare così come una trascendenza trascesa, come «una certa disposizione delle cose-utensili del mio mondo, in quanto indicano per aggiunta un centro di riferimento secondario che è in mezzo al mondo e che non sono io».42 La fatticità dell’Altro, contrariamente alla mia, mi appare come «un punto di vista sul quale posso prendere un punto di vista, uno strumento che posso utilizzare con altri strumenti, [come] lo strumento che io non sono e che utilizzo».43 Il corpo dell’Altro è insomma lo strumento che utilizzo per mezzo dello strumento che io sono, è il significante la cui significazione è «la cristallizzazione di un movimento di trascendenza».44

L’Altro, però, oltre a essere un corpo, mi si rivela come uno sguardo che interpreta il mio corpo per-sé, facendolo giungere alla dimensione del per-altri. Attraverso tale comparsa ottengo la rivelazione del mio essere-oggetto, della mia trascendenza come trascesa, il cui urto è «la rivelazione a vuoto per me dell’esistenza del mio corpo, al di fuori, come un in-sé per altri».45 Così, il mio corpo non si dà esclusivamente come vissuto, ma come «vissuto nel e con il fatto contingente e assoluto dell’esistenza d’altri che si prolunga fuori di me in una dimensione che mi sfugge».46 Per Altri appaio come un corpo immerso nel fluire del mondo verso di loro. Ci sembra anzi che Altri compia per noi «un atto di cui noi non siamo capaci, e che pur ci si impone: vederci come siamo».47 Tale esperienza avviene mediante il linguaggio che ci rivela le principali strutture del corpo per-altri e attraverso le cui manifestazioni tentiamo di afferrarci: «appare tutto un sistema di corrispondenze verbali, dal quale ci facciamo definire il nostro corpo quale è per altri, utilizzando queste definizioni per nominare il nostro corpo qual è per noi».48 In questo modo prendo il punto di vista di Altri sul mio corpo, utilizzando concetti strumentali che mi derivano da essi e realizzo la terza dimensione ontologica del mio corpo.

È proprio tale rapporto che rende possibile ciò che Sartre definisce «un tipo aberrante di apparizione»:49 io posso vedere le mie mani toccare la mia pelle. In questi casi la mia mano mi appare come un oggetto fra gli altri oggetti, come un elemento che si organizza nel mondo e che fa parte di esso.50 La mano, in questo caso, non è più lo strumento che non posso usare, come nel caso del corpo per-sé, ma fa parte degli utensili che io scopro in mezzo al mondo, e posso utilizzarla per mezzo dell’altra mia mano, come quando battiamo il pugno destro sul sinistro al fine di aprire il guscio di una noce. Essa «si integra allora con il sistema infinito degli utensili utilizzati».51 Questa apparizione della mia mano in tale dimensione d’essere «significa che, in certi casi ben definiti, noi possiamo prendere sul nostro corpo il punto di vista d’altri, o, se si preferisce, che il nostro corpo può apparirci come il corpo d’altri».52 Tale manifestazione, però, è assolutamente contingente e non ci dà il corpo in quanto agisce e percepisce, ma in quanto è adoperato e percepito: «la mano che io prendo, non è percepita come mano che io prendo, ma in quanto oggetto percepibile».53 Così, «la natura del corpo per-noi ci sfugge interamente in quanto possiamo prendere su di esso il punto di vista degli altri».54

Queste osservazioni sul ruolo del corpo e del rapporto intersoggettivo nella filosofia sartriana sottolineano l’importanza della mano nel suo tessuto speculativo quale linea guida ed esempio più volte reiterato delle riflessioni di Sartre inerenti alla corporeità. È così apparsa la mano per- quale parte di una totalità che siamo, ma che non possiamo conoscere, fuggendola verso la nullificazione, e la mano per-altri come uno strumento su cui è possibile prendere un punto di vista e che possiamo adoperare in un mondo di strumenti, anche se non ne potremo mai avere una conoscenza che sia separata dalla totalità del corpo dell’Altro e dalla situazione in cui esso si trova. Dice infatti Sartre: «io non posso mai cogliere il corpo d’altri se non a partire da una situazione totale che lo indica [e] non posso percepire isolatamente un organo qualsiasi del corpo d’altri […] così la mia percezione del corpo d’altri è radicalmente differente dalla mia percezione delle cose».55 Infine, è emersa la possibilità contingente, concepita all’interno della terza dimensione ontologica del corpo, di considerare la propria mano dal punto di vista del per-altri.

Un’ulteriore dimensione rilevante dell’esistenza nella quale la mano svolge un ruolo significativo è quella del desiderio, che Sartre riconduce al valore della carezza. Per l’intellettuale francese, infatti, «la carezza non si distingue per nulla dal desiderio […] il desiderio si esprime con la carezza come il pensiero con il linguaggio».56  Il contatto di due epidermidi, ovvero il mutuo svelamento della contingente presenza dell’altro, avviene nel desiderio per cui «io mi faccio carne di fronte all’altro per appropriarmi della carne dell’altro».57 Il desiderio è così un tentativo «di svestire il corpo dei suoi movimenti come dei suoi vestiti e di farlo esistere come pura carne; è un tentativo di incarnazione del corpo dell’altro».58 Il contatto della carezza non è un semplice tocco, ma è «un foggiare»:59 è la scoperta del corpo dell’Altro la cui carne nasce sotto la pressione della mia mano, divenendo qualcosa di conosciuto in modo esplicito e concreto. È la scoperta per l’Altro della sua stessa carne che, prima di quel contatto, non esisteva se non come qualcosa da superare verso le proprie possibilità.60

La carezza fa nascere così il corpo dell’Altro come carne sia per me che per lui: «accarezzando le mani dell’Altro, svelo la sua carne come carne a me e all’Altro».61 Potremmo dunque dire che, attraverso la carezza, realizzo l’incarnazione del corpo altrui, manifestando al contempo la mia stessa incarnazione. Insomma: faccio gustare la mia carne all’Altro «con la sua carne, per obbligarlo a sentirsi carne».62 Il desiderio, dunque, acquisisce concretezza tramite il contatto delle mani sull’epidermide altrui, rendendo la carne qualcosa di esplicito e realizzando la comunione di due corpi, comunque separati da un nulla inestricabile.

Se Mead ci ha mostrato l’apporto delle mani nell’evoluzione del sistema nervoso centrale, nel linguaggio e nell’isolamento degli oggetti fisici, Sartre, invece, ci ha permesso di proporre una vera e propria ontologia della mano che ne ha evidenziato il carattere intersoggettivo. Entrambi gli autori, nonostante le vistose differenze che intercorrono fra loro, si impegnano a proporre un’analisi della mano non come parte anatomica a sé stante, ma come un elemento inserito in un ambiente determinato con il quale è costantemente in relazione.


1 G.H. Mead, Mente, sé e società, Giunti Editore, Firenze 2018, p. 249.

2 Ibidem.

3 L’universalità di Mead si costituisce socialmente e non ha un significato effettivo al di fuori degli atti sociali in cui gli individui sono implicati e dai quali traggono il loro significato. L’universale meadiano, allora, è reso possibile dalla condivisione socialmente determinata di un universo di discorso comune, inteso come il contesto o il campo entro il quale i gesti significativi o simboli trovano di fatto il loro significato e in cui i soggetti, partecipando, prendono parte agli atteggiamenti sociali organizzati della comunità di appartenenza modificando la propria condotta.

4 G.H. Mead, Mente, sé e società, cit., p. 249.

5 Ivi, p. 248.

6 Ivi, p. 250.

7 Cfr. ivi, p. 248. «Questo atteggiamento sociale dell’individuo nei confronti del mondo fisico è lo stesso atteggiamento che si ha nei confronti degli altri oggetti; è un atteggiamento sociale».

8 Cfr. ivi, p. 251. «Le caratteristiche tipiche di queste cose sono determinate in primo luogo dalla mano. Il contatto costituisce ciò che noi chiamiamo la sostanza di una cosa di questo genere. Essa ha naturalmente un colore e un odore, ma noi pensiamo a queste caratteristiche come inerenti a ciò che possiamo maneggiare, cioè alla cosa fisica. Una tale cosa è di grandissima importanza nello sviluppo dell’intelligenza umana».

9 Ibidem.

10 Ivi, p. 86.

11 Cfr. ivi, p. 88. Nella conversazione di gesti fra individui troviamo un simbolo che «corrisponde ad un significato nell’esperienza del primo individuo e che, a sua volta, evoca lo stesso significato nel secondo individuo. Quando il gesto si presenta in questo tipo di situazione, esso è diventato linguaggio».

12 Ivi, p. 86.

13 Ivi, p. 88.

14 Ivi, p. 90.

15 Ivi, p. 20.

16 Ivi, p. 97.

17 Ivi, p. 307.

18 Ibidem.

19 Ibidem.

20 Ibidem.

21 Ivi, p. 446.

22 Ivi, p. 447.

23 Cfr. ivi, p. 251. «Ho presentato il sé e la Mente nei termini di un processo sociale, come aspetti risultanti dall’assunzione della conversazione di gesti nella condotta dell’organismo individuale, così che l’organismo individuale assume, nella forma dei suoi gesti, gli atteggiamenti organizzati degli altri».

24 Cfr. J.P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 2014, pp. 411-412. «Io esisto il mio corpo: questa è la sua prima dimensione d’essere. Il mio corpo è utilizzato e conosciuto da altri: questa è la sua seconda dimensione. Ma in quanto io sono per altri, altri mi si manifesta come il soggetto per il quale io sono oggetto. […] Io quindi esisto per me come conosciuto da altri. Esisto per me come conosciuto da altri a titolo di corpo».

25 Ivi, p. 364.

26 Ivi, p. 365.

27 Ibidem.

28 Ivi, p. 366.

29 Ivi, p. 375.

30 Ivi, p. 388.

31 Ivi, p. 380.

32 Ivi, p. 381.

33 Cfr. ivi, p. 360. «Io vedo la mia mano toccare gli oggetti, ma non la conosco nell’atto di toccarli. […] la mia mano mi rivela la resistenza degli oggetti, la loro durezza o la loro mollezza, ma non se stessa. Così io non vedo la mia mano in modo diverso da questo calamaio».

34 Ibidem.

35 Ibidem.

36 Ivi, p. 279.

37 Ivi, p. 281.

38 Ivi, p. 306.

39 Ivi, p. 282.

40 Ivi, p. 307.

41 Ivi, p. 308.

42 Ivi, p. 399.

43 Ibidem.

44 Ivi, p. 404.

45 Ivi, p. 412.

46 Ibidem.

47 Ivi, p. 414.

48 Ibidem.

49 Ivi, p. 418.

50 Cfr. ibidem.

51 Ibidem.

52 Ibidem.

53 Ibidem.

54 Ivi, p. 419.

55 Ivi, p. 405.

56 Ivi, p. 451.

57 Ibidem.

58 Ibidem.

59 Ivi, p. 452.

60 Cfr. ivi, p. 451. «La carezza non è un semplice sfiorare, ma è un foggiare. Carezzando l’altro, io faccio nascere la sua carne con la mia carezza, sotto le mie dita. La carezza fa parte dell’insieme di cerimonie che incarnano l’altro. […] la carne dell’altro non esisteva esplicitamente per me, perché percepivo il corpo dell’altro in situazione; non esisteva per lui perché la trascendeva verso le sue possibilità e verso l’oggetto».

61 Ibidem.

62 Ivi, p. 452.

BIBLIOGRAFIA

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