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In una natura queer

Una nuova ontologia per spiegare la fluidità di genere
Elisa Gremmo
26 ottobre 2022

ABSTRACT

This article examines the origins of the binary distinction that burdens the conception of gender identity and it tries to show how gender fluidity is justifiable and consequent to an alternative ontological model to the representational one, which envisages the opposition between subject and object. Beginning with Pierre Bourdieu's analysis of the mythical-ritual system from which a binary partition of reality arises, it will then examine – through Judith Butler's research – the relationship between the subject and gender identity. The last section of the text will focus on the agential realism proposed by Karen Barad, which will be understood as a new ontology capable of accommodating and explaining gender fluidity.

KEYWORDS

Gender fluidity, Agential realism, Relational ontology, Identity, Subject.

Distinguere tra maschile e femminile e associare un determinato genere al sesso “equivalente” sono dinamiche che ci risultano spontanee. Ma da dove deriva questo habitus ed è realmente inscritto nelle “leggi della natura”?

Il sociologo Pierre Bourdieu ha rintracciato l’insieme delle opposizioni che da sempre organizzano il cosmo, gli attributi e gli atti sessuali che sono investiti da determinazioni antropologiche e cosmologiche. Si tratta di una sorta di sistema mitico-rituale che organizza le cose e le attività secondo l’opposizione tra maschile e femminile e che fa rientrare la divisione dei sessi “nell’ordine delle cose”. In questo modo

la differenza biologica tra i sessi, cioè tra il corpo maschile e femminile, e, in modo particolare, la differenza anatomica tra gli organi sessuali può così apparire come la giustificazione naturale della differenza socialmente costruita tra i generi e in modo specifico della divisione sessuale del lavoro.1

In altri termini, le interpretazioni delle opposizioni tradizionali – ad esempio, alto/basso, passivo/attivo, secco/umido, mobile/immobile – alimentano e legittimano un rapporto di dominio inscrivendolo in una natura biologica che, però, altro non è che una costruzione sociale naturalizzata. Questa postura tende ad assumere la forma di azione pedagogica che avvia una sorta di “Bildung del corpo e degli atteggiamenti sociali”, andando a creare un “recinto invisibile”, un “confinamento simbolico”, che richiama all’ordine i modi e il corpo senza aver bisogno di fare prescrizioni in modo esplicito.

È un ciclo che si autoalimenta: la legittimazione naturale del rapporto di dominio induce le persone a comportarsi in un certo modo e, allo stesso tempo, il loro atteggiamento conferma e giustifica il rapporto di dominio stesso.

La visione androcentrica è così continuamente legittimata dalle stesse pratiche che essa determina: nella misura in cui le loro disposizioni sono il prodotto dell’incorporazione del pregiudizio sfavorevole contro il femminile che è istituito nell’ordine delle cose, le donne possono solo confermare costantemente tale pregiudizio. […] Lungi dall’affermare che le strutture di dominio sono antistoriche, tenterò invece di stabilire che esse sono il prodotto di un lavoro incessante (quindi storico) di riproduzione cui contribuiscono agenti singoli […] e istituzioni, famiglie, chiesa, scuola, stato.2

È fondamentale sottolineare che questo meccanismo è storico e verte sulla filogenesi e l’ontogenesi di un inconscio insieme collettivo e individuale: le disposizioni personali e sociali – gli habitus – sono inseparabili dalle strutture che le producono, specialmente quella del mercato dei beni simbolici. «Il principio dell’inferiorità e dell’esclusione della donna, che il sistema mitico-rituale ratifica e amplifica, al punto da farne il principio di divisione di tutto l’universo, non è altro che la disimmetria fondamentale, quella del soggetto e dell’oggetto, dell’agente e dello strumento, che si instaura tra l’uomo e la donna sul terreno degli scambi simbolici».3 In altri termini, il rapporto di dominio maschile, che è stato interiorizzato come la conseguenza diretta di una legge di natura esplicitata dai miti e dai rituali, è una costruzione sociale che poggia su un’altra asimmetria, più radicale, che è quella vigente tra il soggetto e l’oggetto, contrapposizione che si attua anche nella relazione tra maschile e femminile.

La costruzione sociale di un ruolo inscritto nella natura presenta un’altra problematica, che si manifesta soprattutto nella rivoluzione simbolica dei movimenti femministi che cercano di mettere in luce le strutture di dominio per rompere questo circolo vizioso simbolico.

In Questione di genere Judith Butler evidenzia come «buona parte della teoria femminista si è basata sul presupposto che esistesse un’identità, concepita attraverso la categoria delle donne, che non solo istituisce gli interessi e gli obiettivi femministi all’interno del discorso, ma che costituisce il soggetto per il quale si cerca una rappresentanza e una rappresentazione politica».4 Il problema risiede nel fatto che il soggetto femminista è costruito all’interno dello stesso sistema dal quale si vuole emancipare.

Come ha mostrato Michel Foucault in La volontà di sapere, i sistemi giuridici esercitano il loro potere su soggetti che dicono di limitarsi a rappresentare, ma che in realtà essi stessi producono. Butler riprende la stessa argomentazione e la traduce in un modo che è in sintonia con la trattazione di Bourdieu:

La legge produce la sessualità nella forma delle «predisposizioni» e insieme sembra falsamente, in un momento successivo, trasformare queste predisposizioni che appaiono come «naturali» nelle strutture culturalmente accettabili dalla parentela esogamica. Per occultare il fatto che la genealogia della legge produce il fenomeno stesso che in seguito afferma solo di incarnare o reprimere, la legge svolge una terza funzione: insediare se stessa come principio di continuità logica in una narrazione di relazioni causali, in cui i fatti psichici sono assunti a punto di partenza; questa configurazione della legge esclude la possibilità di una genealogia più radicale che arrivi fino alle origini culturali della sessualità e delle relazioni di potere.5

Da ciò consegue che “le donne” come soggetto del femminismo pongono il problema dell’assenza di un soggetto che stia “davanti” alla legge, quindi se il soggetto esista prima dei rapporti di potere o se sia creato da essi. Inoltre, anche concependo il genere come un attributo di un soggetto, non è possibile separarlo nettamente dalle intersezioni politiche e culturali in cui esso è prodotto e mantenuto, perché non è sempre costituito in modo coerente o costante in diversi contesti storici e perché interseca le modalità razziali, di classe, etniche, sessuali e regionali delle identità costituite discorsivamente. In aggiunta a ciò, l’unità del soggetto è già contestata potenzialmente dalla distinzione che permette di vedere il genere come una interpretazione multipla del sesso. Infatti, non vale la regola secondo cui il sesso sta alla natura come il genere sta alla cultura: non si tratta di un prodotto pre-discorsivo, precedente alla cultura, una superficie politicamente neutrale su cui agisce la cultura stessa. Se questo fosse vero, la cultura diventerebbe un destino alla stregua della biologia.

Se il corpo è «una situazione», come sostiene Beauvoir, non si può ricorrere a un corpo che non sia già stato interpretato da significati culturali; quindi, il sesso non può qualificarsi come una fattività anatomica pre-discorsiva. […] Il sesso, per definizione, è già da sempre genere.6

Ma che cosa significa che «il sesso è già da sempre genere»? Il corpo viene rappresentato come uno strumento o un medium attraverso il quale vengono messi in relazione significati culturali, ma il “corpo” è di per sé una costruzione. Questo ci permette di abbandonare una concezione del soggetto tale per cui si presuppone una persona sostanziale portatrice di attributi essenziali e non: il genere sarebbe in questo caso un attributo di una persona essenzialmente caratterizzata come sostanza. Invece, una prospettiva relazionale, come quella accolta da Butler, mostra «come quello che la persona “è”, e per giunta quello che il genere “è”, sia sempre relativo alle relazioni costruite attraverso le quali viene determinato».7

Una concezione sostanzialistica della persona è rassicurante; tuttavia, la “coerenza” o la “continuità” non sono caratteristiche dell’essere persona, quanto piuttosto norme socialmente istituite e conservate. Una visione unitaria dell’identità viene messa in discussione quando i concetti che dovrebbero fungere da “stabilizzatori”, come il genere e il sesso, vengono contestati dall’emergere culturale di elementi “incoerenti” e “discontinui” che non si riescono a conformare alle norme culturali d’uso.

Se la nozione di sostanza stabile è una costruzione funzionale prodotta attraverso un ordinamento coattivo degli attributi in sequenze di generi coerenti, allora sembra che il genere come sostanza, l’applicabilità di “uomo” e “donna” in quanto sostantivi, vengano messi in questione dal gioco dissonante di quegli attributi che non riescono a conformarsi a modelli sequenziali o casuali d’intelligibilità. […] All’interno del discorso tradizionale della metafisica della sostanza il genere si rivela performativo, cioè costruisce l’identità che è supposto essere. […] Non esiste nessuna identità di genere dietro alle espressioni del genere; tale identità è costituita performativamente dalle espressioni stesse che si dice siano i suoi risultati.8

In altri termini, non è possibile rintracciare un’identità originaria – e quindi un genere originario – a cui attribuire delle caratteristiche coerenti: il genere e l’identità sessuale di una persona sono performativi.

In Secondo sesso Simone de Beauvoir afferma che «donna non si nasce, lo si diventa», espressione che secondo Butler indica che la categoria “donna” è una realizzazione culturale variabile, una serie di significati che vengono accolti entro un campo culturale e che il sesso è un attributo necessario dell’essere umano (chiunque nasce con un sesso), ma «il sesso non causa il genere e il genere non può essere inteso come qualcosa che riflette o esprime il sesso».9

Ma se il sesso non delimita il genere, allora potrebbero esserci generi che non sono strettamente riconducibili all’apparente dualità del sesso. È come se il genere fosse un’azione in grado di dilagare al di là dei limiti imposti dal binario del sesso e che quindi richieda un nuovo tipo di riflessione che vada oltre alle restrizioni duali e sostanzializzanti delle categorie del nostro habitus.

In questo senso l’eterosessualità propone delle normatività sessuali che sono intrinsecamente impossibili da incarnare totalmente e quindi fallimentari in origine: l’eterosessualità presuppone un’associazione diretta e univoca tra sesso e genere, ma la performatività del genere elude questo vincolo.

Per riassumere, abbiamo visto come Bourdieu identifichi un sistema di organizzazione mitico-rituale impiantato sulla contrapposizione originale tra soggetto e oggetto: le opposizioni che regolano i rapporti tra maschile e femminile inducono latentemente a certi comportamenti i quali, a loro volta, giustificano questo meccanismo fino a concepirlo come indissolubile e “naturale”.

L’impianto di base, ossia la contrapposizione tra soggetto e oggetto, è la condizione fondamentale per la costruzione sociale di un ruolo entro cui le persone possono essere sospinte. Questo è valido sul versante della rottura dei rapporti di dominio, quindi la creazione di categorie sociali, ad esempio la “donna”, a cui vengono attribuite particolari caratteristiche da difendere o da valorizzare; ma anche sul versante dell’imposizione dei ruoli sessuali, come l’esclusiva accettazione sociale della concordanza sesso-genere.

Una concezione sostanzialistica della persona, dunque coincidente con una sostanza portatrice di attributi, rischia di essere discriminatoria: stabilisce a priori chi e con quali caratteristiche può essere parte della società. È necessaria, quindi, una nuova configurazione ontologica, che esuli dal tradizionale binarismo.

A partire dalla nozione di “performatività” introdotta da Judith Butler è possibile fare riferimento al realismo agenzialeproposto dalla fisica e filosofa Karen Barad. Il “realismo agenziale” «rappresenta il processo con il quale la realtà si materializza dinamicamente attraverso le intra-azioni di fattori umani e non-umani, producendo fenomeni e dispositivi».10 Si tratta di un modello processuale di realtà secondo cui il soggetto e l’oggetto non sono sostanziali e non possono essere descritti singolarmente, bensì come sistemi che emergono dalla sovrapposizione di più strati: i fattori e le entità si costituiscono reciprocamente, sono aggrovigliati e prendono parte intra-attiva al divenire del mondo.

Una concezione sostanzialistica e binaria del mondo può sfociare nel rappresentazionismo, ossia nella visione che presuppone una distinzione ontologica tra le rappresentazioni e le entità rappresentate – in questo caso, ad esempio, supporre una divisione tra una “persona” (reale) e una “donna” (categoria rappresentata). Come prima accennato, Butler si oppone al rappresentazionismo e propone una concezione performativa delle pratiche discorsive, contestando al linguaggio l’eccessivo potere accordato per determinare che cosa è reale.

La performatività, secondo Barad, riconosce alla materia di essere parte attiva del divenire del mondo e incorpora diversi elementi materiali e discorsivi, umani e non umani, naturali e culturali, mettendo in discussione le categorie a cui siamo abituati «per esaminare le pratiche attraverso cui questi confini differenziali vengono stabilizzati e destabilizzati».11 Barad, quindi, vuole contestare la partizione della realtà divisa tra soggetti e oggetti, tra natura e cultura, e provare a pensare un’ontologia alternativa, una ontologia relazionale.

L’ontologia relazione è […] una relazione causale tra specifiche pratiche esclusorie incarnate in specifiche configurazioni materiali del mondo (ossia pratiche discorsive/(con)figurazioni al posto di “parole”) e specifici fenomeni materiali (ossia, relazioni al posto di “cose”). Questa relazione causale tra apparati di produzione corporea e fenomeni prodotti rappresenta una relazione di “intra-azione” agenziale. […] I fenomeni non segnano una semplice inseparabilità epistemologica tra “osservatore” e “osservato”, ma consistono nell’inseparabilità ontologica tra “componenti” che intra-agiscono agenzialmente. I fenomeni, cioè, sono relazioni ontologicamente originarie – relazioni senza relata pre-esistenti.12

Con “intra-azione” si intende lo scambio che avviene simultaneamente tra due attori e che non ha né estensione né durata, è un’occorrenza unica, inclusiva, e temporalmente connessa. Per Barad non esistono elementi “fuori” che devono essere conosciuti e misurati, ma la realtà e la materia divengono perennemente. Quindi, tutto è un flusso processuale di agency, l’universo è una continua intra-attività agenziale in divenire e le unità ontologiche primarie non sono le “cose” ma i fenomeni. I fenomeni, a loro volta, non sono il punto di scambio tra un soggetto osservante e un oggetto esterno: viene abolita la distanza tra due elementi originari che, occasionalmente, interagiscono; sono essi stessi la matrice della realtà. Infatti, la materia stessa è considerata come un “coagulo di agency”, un processo di materializzazione dei fenomeni e un agente attivo della costituzione della realtà.

D’altronde – chiede Barad – «perché pensiamo che l’esistenza delle relazioni richieda dei relata?».13 L’ontologia relazionale rifiuta la metafisica delle “parole” e delle “cose” per riconoscere la natura, il corpo e la materialità nella pienezza del loro divenire. Barad abbandona la postulazione di entità individualmente determinate con proprietà intrinseche, rifiutando la metafisica atomistica che considera le “cose” come entità ontologiche fondamentali e abolendo, quindi, la distinzione intrinseca tra soggetto e oggetto. L’unità epistemologica primaria, come già accennato, è costituta dai fenomeni.

È attraverso specifiche intra-azioni agenziali che i confini e le proprietà delle “componenti” dei fenomeni diventano determinati e che particolari concetti incanti diventano significativi. Una specifica intra-azione (che coinvolge una specifica configurazione materiale dell’“apparato di osservazione”) attua un taglio agenziale (in contrasto con il taglio cartesiano – una distinzione intrinseca – tra soggetto e oggetto) che opera una separazione tra “soggetto” e “oggetto”. […] Le relazioni non preesistono alle relazioni; piuttosto, le relazioni all’interno dei fenomeni emergono attraversano specifiche intra-azioni.14

È necessario sforzarsi di pensare la realtà in termini processuali e non sostanziali. Per Barad, sono le intra-azioni che determinano le componenti dei fenomeni, non sono i fenomeni che emergono dalle interazioni di componenti diversi. Il taglio agenziale è precisamente ciò che crea la separazione tra soggetto e oggetto, ma non si tratta di entità sostanziali, bensì di esplicitazioni di agency: è come se “soggetto” e “oggetto” fossero ruoli di volta in volta occupati da elementi differenti e non entità con specifiche determinazioni. Di conseguenza, le “intra-azioni” sono azioni causali e materiali che possono o meno coinvolgere l’essere umano e stabiliscono di volta in volta i confini tra ciò che noi chiamiamo “natura” e “cultura”. L’universo, quindi, è da pensare come una intra-attività in divenire il cui dinamismo è l’agency stessa.

Seguendo lo stesso principio, anche i corpi umani e i soggetti umani non pre-esistono in quanto tali e non sono prodotti finali, ma sono parte del mondo nel suo divenire aperto. Lo stesso vale per la materia: è già sempre storicità in corso.

Barad riconosce da parte di Butler la rielaborazione della nozione di materia come processo di materializzazione e la sua opposizione all’interpretazione rappresentazionalista della materia come un sito vuoto, ma evidenzia come Butler finisca per considerarla come un prodotto passivo di pratiche discorsive. Per Barad, invece, la materia è sostanza nel divenire – non è una “cosa”, ma un aggregarsi e disgregarsi continuo di agentività – e non richiede il segno di una forza esterna come la cultura o la storia per sussistere: «la materia è un processo stabilizzante e destabilizzante di intra-attività».15

Allo stesso modo, anche i corpi umani si concretizzano attraverso l’interazione dell’intra-attività del mondo, attraverso la sua performatività. Per cui «ciò che costituisce l’“umano” non è una nozione fissa o pre-determinata, ma nemmeno un’idealità libera di fluttuare. Non si tratta di un processo indefinito, ma di un’idea libera».16 È dunque possibile abbandonare l’obbligo di comportarsi ed essere in un certo modo solo perché la propria conformazione fisica o l’habitus della propria sfera mitico-rituale lo richiede; allo stesso modo viene meno la concezione di un soggetto forte che possiede determinati attributi e che pre-esiste alla norma. Ma l’elemento più importante – e anche quello più ostico – da scardinare è la contrapposizione tra soggetto e oggetto, ossia la matrice della concezione binaria del mondo che inevitabilmente indirizza chiunque verso una dicotomia.

Noi siamo l’attuazione di un fenomeno dinamico, il coagulo della realtà in divenire, e non c’è né prescrizione né costrizione in questo.

1 P. Bourdieu, Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano 1998, p. 18.

2 Ivi, pp. 42-45.

3 Ivi, p. 53.

4 J. Butler, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Laterza, Bari-Roma 2017, p. 3.

5 Ivi, p. 95.

6 Ivi, p. 14.

7 Ivi, p. 17.

8 Ivi, pp. 37-38, corsivo mio.

9 Ivi, p. 158.

10 K. Barad, Performatività della natura. Quanto e Queer, Edizioni ETS, Pisa 2017, p. 8.

11 Ivi, p. 38.

12 Ivi, pp. 44-45.

13 K. Barad, Performatività post-umanista: verso una comprensione di come la materia diventa materia, in «Signs», Vol. 28, No. 3, Gender and Sciences: New Issues (primavera 2003), University of Chicago Press, p. 812.

14 Ivi, p. 815.

15 Ivi, p. 822.

16 Ivi, p. 823.

BIBLIOGRAFIA

Barad K., Performatività della natura. Quanto e Queer, Edizioni ETS, Pisa 2017.

Barad K., Performatività post-umanista: verso una comprensione di come la materia diventa materia, in «Signs», Vol. 28, No. 3, Gender and Sciences: New Issues (primavera 2003), University of Chicago Press, pp. 801-831.

Bourdieu P., Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano 1998.

Butler J., Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Laterza, Bari-Roma 2017.

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