ABSTRACT
This article aims to analyze the deconstruction of the subject in its postmodern developments. Derrida questions the legitimacy of defining the modern subject univocally through the concept of cogito and explores the potential consequences of its overcoming. While Heidegger’s Dasein and Lévinas’ hostage challenge the boundaries of the metaphysical subject, the “who” that takes its place remains limited to human existence, establishing the relationship with animality on a sacrificial structure and violent appropriation. The call of the other, by addressing the subject before it constitutes itself as a human, reveals the moral and boundless character of responsibility, extending the law of hospitality to the non-human animals.
KEYWORDS
Subject, Animality, Deconstruction, Phenomenology, Responsibility.
Quando Jean-Luc Nancy chiede a Derrida «chi viene dopo il soggetto?»,1 ciò che sembra presupporre è l’esistenza di una linea continua originatasi in un punto ben preciso: la formulazione del cogito cartesiano e la riduzione dell’io all’io penso. Questa linea avrebbe attraversato l’occidente nel corso dell’epoca moderna, dispiegandosi in mezzo agli sconvolgimenti storici e politici, fino a spezzarsi, disallinearsi e frammentarsi in molteplici parti nella postmodernità.
Nonostante filosofi come Heidegger, Lévinas e Lacan abbiano messo in crisi i tratti della soggettività umanistica e metafisica, Derrida sostiene che la questione non sia mai stata chiusa, perché il soggetto, benché disidentificato rispetto a sé, ha continuato a occupare uno spazio e a essere as-soggettato alla legge, alla morale, alla politica, attraverso quel processo di soggettivazione che rende gli individui soggetti a norme, regole sociali e ideologie, determinando i modi accettabili di essere e di agire.2 Riprendendo il legame di dipendenza della metafisica dalla grammatica analizzato da Nietzsche,3 si è portati a dubitare della possibilità di una rinuncia al soggetto all’interno della frase e del discorso filosofico senza che ciò comporti un ribaltamento della struttura logica di quest’ultimo. Nel momento stesso in cui ci chiediamo chi venga dopo il soggetto, rimettiamo al centro del discorso il pronome chi, al quale il soggetto resta, appunto, assoggettato.4
Derrida si chiede se esista un chi prima che esso sia interpellato, prima che sia formulata la domanda, o se la stessa sintassi (il fatto di nominare il chi) ne istituisca l’esistenza. Per comprendere, dunque, gli sviluppi postmoderni – e postumani – della storia del soggetto, non occorre situarsi dopo, ma prima che vi sia un’identificazione dell’io con sé stesso, una sua riduzione in una res cogitans. Il chi, infatti, precede il soggetto tanto nella struttura grammaticale della frase quanto nella costruzione fenomenologica derridiana. Se dislochiamo il soggetto dal posto di centralità e privilegio occupato nel corso della tradizione moderna occidentale, ciò che ne deriva è una differenza, un vuoto. Quel vuoto rappresenta lo spazio del chi, della singolarità antecedente rispetto all’individualità del soggetto. Per affrontare questioni morali, giuridiche e politiche che si rivolgano a un soggetto come dimensione ultima, sembra impossibile liquidare la questione senza occuparsi del suo posizionamento, del posto vacante che avrebbe lasciato con il venir meno del mito metafisico: una volta che i predicati tradizionali e di stampo umanistico sono stati decostruiti, che cosa resta del soggetto o di chi ne prende il posto?
Il soggetto metafisico che Derrida inscrive nella tradizione che va da Cartesio a Kant e a Husserl ha costituito il presupposto di un’oggettività necessaria per dirimere questioni etiche, scientifiche e giuridiche. Trascurare la differenza derivante dal suo «déplacement»,5 afferma Derrida, avrebbe conseguenze catastrofiche e comporterebbe un ritorno al “peggio”, ossia al totalitarismo, all’annichilimento non solo della soggettività, ma anche della singolarità che vi è implicata, della différance o non-coincidenza con sé che, con la decostruzione fenomenologica del soggetto, si situa all’origine della costituzione di ogni soggettività. La disappropriazione del soggetto rivela così la fragilità del suo fondamento ontologico, la passività originaria che accompagna l’essere gettato prima che vi sia una stabilizzazione del soggetto nella forma di un’individualità.
Se il soggetto non può essere definito con i tratti della pura volontà o della presenza a sé della coscienza, ma piuttosto con la sua non-coincidenza con sé stesso, allora lo stesso termine “soggetto” dev’essere messo in questione. Il problema della nomenclatura riguarderebbe gli stessi discorsi di cui esso è posto a fondamento, poiché la sua decostruzione comporterebbe la necessità di orientarsi verso un’etica, un diritto e una politica altri, che assumerebbero allora nomi diversi. Ciò che Derrida ritiene opportuno domandarsi è se sia possibile una responsabilità altra a cui chiunque prende il posto del soggetto è chiamato a rispondere.
Con il gesto decostruttivo, Derrida intende recuperare la questione del chi liberando il pronome da quei predicati che lo confinano all’umano, alla grammatica del linguaggio verbale utilizzato per demarcare la linea di confine tra animali umani e animali non umani. L’espressione «Il faut bien manger», che dà il titolo all’opera in cui è raccolta l’intervista, sottolinea la polisemia dell’avverbio che accompagna l’atto – al tempo stesso primordiale, originario e culturalmente derivato – di mangiare: il soggetto «deve pur [il faut bien] mangiare»,6 è animato dal bisogno di consumare l’altro per costruire sé stesso, sia sul piano simbolico sia su quello letterale, ma deve anche mangiare bene [bien manger]. Questo divoramento – legato a quello che Derrida chiama «schema del dominante»7 del soggetto umano, maschile, occidentale e adulto – assume caratteri ambivalenti. Nell’azione di incorporazione, il soggetto riduce l’altro a medesimo, appropriandosene. La sovranità del soggetto, tuttavia, è messa in crisi da questo inglobamento, perché la presenza dell’altro genera nel medesimo un’apertura alla differenza che lo decentra dal suo asse di allineamento e coincidenza con sé. Si genera, quindi, una dialettica tra proprio e improprio: l’improprio – cioè l’alterità – è irriducibile allo schema del proprio del soggetto, che consiste nel medesimo. Il paradosso del soggetto inteso come calcolo sta nel fatto che egli deve pur mangiare per esistere in un mondo di singolarità plurali e come identità situata, sessuata e complessa, ma nell’atto metonimico di mangiare assimila qualcosa che non si dialettizza del tutto, che gli rimane estraneo. Nell’incorporazione dell’altro, il soggetto rivela la sua vulnerabilità e la sua incompletezza. Il “bene” del titolo non è solo soggetto ad accezioni semantiche differenti, ma rivela – in italiano più che in francese – la sua poliedricità data dalla posizione che occupa all’interno della frase. Come avverbio del verbo “mangiare”, risponde a una questione morale: quella che determina se è possibile un «divoramento che interdica esplicitamente l’incorporazione dell’Altro».8
In L’animale che dunque sono, Derrida riflette sulla persistenza della struttura carnofallologocentrica nello schema del soggetto, che lega la sua costituzione al sacrificio dell’alterità e, in particolare, della femminilità e dell’animalità, che sono state escluse dal paradigma razionalista della soggettività moderna in occidente: «situando la possibilità e la necessità del sacrificio al centro dell’etica, [il soggetto umano] non si sente riguardato, se si può dire, dall’animot, e non gli riconosce nessuno dei tratti attribuiti al volto umano».9
Lo schema dominante del soggetto, ereditando la lezione di Cartesio, attribuisce valore all’autonomia di un soggetto che trascende il suo legame con la natura e con il corpo. L’autorità del soggetto è data sia dalla sua unificazione sotto una coscienza morale, sia dal suo dominio sull’alterità. Una volta assunti questi ideali come contorni per delineare il soggetto, essi vengono attribuiti all’uomo in quanto «homo et vir»10 nella sua duplice accezione: come essere umano distinto e spolpato della sua animalità e come uomo contrapposto alla donna, che fa di sé stesso l’universale, la norma a partire dalla quale pensare la differenza di genere. Il tipo di rapporto descritto, dunque, non esce dai limiti antropocentrici e androcentrici che fanno coincidere l’autenticità della relazione e la possibilità di rispecchiamento con un incontro tra soggetti umani, maschili e adulti, di cui può emergere la singolarità e l’unicità del chi. Al contrario, la riflessione sull’animalità assume per lo più la forma di un trattato scientifico che ha come oggetto «l’animale teoretico» anziché l’animale come altro.
A partire da questa impostazione, che si riflette sulle teorie morali che affrontano la questione del rapporto con gli animali non umani, i principali paradigmi antispecisti – in particolare l’utilitarismo di Peter Singer e il giusnaturalismo di Tom Regan, i quali hanno segnato maggiormente il dibattito contemporaneo – fondano la validità delle proprie argomentazioni su quegli stessi criteri di autonomia, indipendenza e razionalità storicamente utilizzati per escludere gli animali dalla considerazione morale. I diritti sono attribuiti agli animali non umani in quanto portatori di caratteristiche appartenenti allo schema della soggettività dominante, che tuttavia resta antropocentrico nelle sue premesse. L’animale, cioè, continua a essere posto al di fuori del cerchio dell’etica, nonostante i tentativi di ampliare la sfera dei diritti, poiché sarebbe lo stesso concetto di diritto, legandosi a una visione giuridica e normativa degli individui a cui si rivolge, a suggerire una delimitazione là dove sono tracciati i limiti del soggetto morale.
La sovversione dei predicati che confinano il soggetto alla tradizione metafisica, in Lévinas, conduce a una diversa apertura etica all’alterità, che avviene attraverso la categoria dell’ospitalità: il soggetto è innanzitutto ostaggio che viene «consegnato all’altro nell’apertura santa dell’etica»,11 la quale precede la normatività delle leggi morali. Il soggetto è chiamato a essere responsabile dell’altro prima che di sé stesso attraverso il comandamento del «tu non ucciderai». Questa responsabilità, dal carattere originario e apparentemente illimitato, si indirizza all’altro nel momento stesso in cui lo istituisce. Il volto è il modo con cui l’altro si presenta originariamente all’io mettendone in crisi i confini, interpellandolo e chiamandolo a essere responsabile. Attraverso il volto, l’altro mi guarda e mi riguarda, perché nella sua apertura emerge l’inevitabilità della relazione e della responsabilità verso l’altro.
Il volto di cui parla Lévinas è, però, rappresentato da un volto umano e fraterno. La seconda persona singolare a cui è rivolto l’imperativo morale («tu non ucciderai») – osserva Derrida – implica una specificazione che resta sottintesa: «tu non ucciderai il tuo prossimo», dove il prossimo rappresenta l’altro uomo. L’interdizione di uccidere non è estesa all’animale, sebbene questo sia identificato dalla tradizione filosofica come altro «più radicalmente altro»12. Al contrario, i dogmi teologici e morali hanno istituito il sacrificio animale come pratica essenziale di purificazione, di distaccamento dalla propria animalità e corporeità con il fine di diventare uomini in un modo culturalmente e antropologicamente connotato. La trascendenza dalla propria carne avviene attraverso il sacrificio di quella altrui. Il “prossimo” lévinassiano prende il posto del soggetto solo in quanto uomo, perpetuando la legittimità del sacrificio verso gli altri viventi.13
La domanda iniziale (chi viene dopo il soggetto?) non può trovare una risposta che implichi la permanenza di un soggetto prima che sia interpellato. Se la responsabilità istituisce un soggetto che è fin da subito soggetto dialogico e relazionale, che è già altro e ostaggio dell’altro, confinare tale responsabilità al soggetto umano appare arbitrario, in quanto la stessa costruzione di una coscienza soggettiva e morale avviene attraverso la chiamata dell’altro e non prima. Per rispondere alla questione del soggetto, quindi, occorre chiedersi dove “tagliare” la sua sagoma una volta che esso è stato dislocato. «Ciò vuol dire anche che non si sa mai, non si è mai saputo come ritagliare [decouper] un soggetto, oggi meno che mai».14
La chiamata dell’altro non può giungere da un soggetto che ha già saturato i suoi confini con tratti esclusivamente umani. La decostruzione del soggetto, pur non essendo intrinsecamente morale, ha effetti sul modo in cui rispondiamo alle questioni etiche che presuppongono una certa concezione di soggetto. Ridisegnare i contorni del volto dell’altro, renderli sbiaditi o addirittura cancellarli, significa cambiare i fattori che costituiscono il calcolo del soggetto, ma anche modificare gli elementi che fondano il discorso morale riferito a quel soggetto. La responsabilità derivante dal gesto decostruttivo è quella di un’appropriazione non violenta dell’altro, ossia di un rapporto all’altro come altro, che non preveda la cancellazione, la sottomissione e l’incorporazione di quest’ultimo al medesimo.15 Per definirsi tale, secondo Derrida, questa responsabilità deve presentarsi come smisurata: «Una responsabilità limitata, misurata, calcolabile, razionalmente distribuibile, è già il divenire-diritto della morale».16
Alla calcolabilità del soggetto, Derrida contrappone l’incalcolabilità della decisione autentica, che può essere presa solo di fronte all’indecidibile per evitare di risultare, appunto, frutto di un calcolo che possiede già gli elementi capaci di orientare la scelta e la risposta. Questa responsabilità dovrebbe situarsi al di là di ogni delimitazione e misura per evitare di stabilizzarsi entro i tradizionali modelli etici e giuridici. Il «tu non ucciderai», nel momento in cui attraversa la prova dell’incalcolabile, si traduce in «tu non metterai a morte il vivente in generale», un comandamento che interpella il soggetto prima che il rapporto con l’alterità sia limitato al volto umano.
Il tipo di incorporazione di cui si parla, pur riguardando il rapporto tra ego e alter ego nelle sue differenti ramificazioni, sembra non liberarsi dalla sua rappresentazione materiale. Il divoramento del corpo altrui, che è corpo animale, non si limita a illustrare il processo di appropriazione dell’alterità e a esserne metafora visiva. Al contrario, i due piani risultano interconnessi e impossibili da separare. Se si ammette un dovere decostruttivo nei confronti del soggetto, un’analisi attenta dei suoi confini e predicati volta a rivelarne – come hanno fatto gli stessi Heidegger e Lévinas – il carattere interdipendente, passivo, gettato e a rendere possibile un diverso rapporto con l’animalità dell’umano, questa sorta di imperativo dovrebbe riguardare allo stesso modo l’esteriorità del rapporto con l’animale e interdire il consumo materiale dell’altro e della sua carne.
Tuttavia, la descrizione che Derrida fornisce della responsabilità originaria, che precede e fonda ogni successiva responsabilità (morale, giuridica, politica), pone dei limiti alle pratiche morali e alle azioni che possono derivarne, proprio in virtù del suo carattere originario, smisurato e incalcolabile. Questo tipo di imputabilità, che è pre-discorsiva, pre-grammaticale e pre-giuridica, apre uno spazio che è destinato a non totalizzarsi, a non chiudersi del tutto in un modello etico normativo, perché «qualcosa di questa chiamata dell’altro deve restare non riappropriabile, in un certo qual modo non identificabile […] per restare dell’altro».17 Se, però, si vuole evitare che la decostruzione del soggetto conduca a esiti nichilisti e se, come lo stesso Derrida suggerisce, occorre dare una nuova definizione dei discorsi di cui il soggetto è protagonista, è necessario chiedersi quale rapporto intrattiene questa responsabilità con le sue applicazioni etiche, giuridiche e politiche.
La responsabilità verso il vivente in generale può costituire un modo di essere nel mondo e con gli altri che presenta somiglianze con il Dasein heideggeriano, nonostante questo sia sottoposto a critica da parte di Derrida in quanto circoscritto ai limiti dell’umano. Ciò che, tuttavia, l’esser-ci heideggeriano sottolinea e che nell’analisi di Derrida sembra restare in secondo piano è proprio il carattere situato dell’esistente e del suo tessuto relazionale, che lega la responsabilità al contesto di coesistenza e interdipendenza tra viventi. Occorre domandarsi se il dovere decostruttivo, una volta approdato sul piano dell’etica, possa mantenere il carattere di originarietà, dismisura e incalcolabilità che determina una responsabilità non ancora soggettiva o se, invece, il suo essere situata e concreta rappresenti una delimitazione, un argine necessario per indirizzare la responsabilità al volto particolare e singolare dell’altro nel momento in cui diventa paziente morale.
La critica di Derrida alla tendenza umanistica delle trattazioni sul soggetto, anche di quelle che pretendono di scardinarne la concezione metafisica e moderna, ha il merito di decostruire una certa interpretazione dell’animalità e di mettere in discussione la fissità delle categorizzazioni utilizzate per giustificare un’appropriazione violenta dei viventi non umani. Tuttavia, per permettere che la responsabilità illimitata e liberata dai suoi tratti carnofallologocentrici si traduca nel suo corrispettivo etico e si formalizzi nelle pratiche, occorre riconoscere la necessità di una responsabilità situata e contestuale, capace, da un lato, di destrutturare i confini arbitrari di un soggetto antropocentrico e, dall’altro, di orientare un diverso modo di essere nel mondo e con gli altri – umani e non umani – rifiutando una logica del sacrificio e del divoramento.
1 J. Derrida, «Il faut bien manger» o il calcolo del soggetto, a cura di S. Maruzzella e F. Viri, Mimesis, Milano-Udine 2011, p. 5.
2 Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, trad. it. di P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli, Milano 2017, p. 56.
3 F. Nietzsche, La gaia scienza, § 354, Vol. II, trad. it. di G.C. Gentili, Einaudi, Torino 2015, p. 261.
4 In francese, la lingua riflette in maniera più evidente questo doppio livello: “a proposito di chi” è espresso in lingua originale con “au sujet de qui”.
5 J. Derrida, «Il faut bien manger» o il calcolo del soggetto, cit., p. 15.
6 Ivi, p. 29.
7 Ivi, p. 28.
8 A. Volpe, Un esserci animale?, in «Liberazioni», n. 12, 2013, pp. 16-31.
9 J. Derrida, L’animale che dunque sono, a cura di G. Dalmasso, Jaca Book, Milano 2006, p. 186. Il termine animot è composto dall’unione tra animaux (animale) e mot (parola). Indica l’animale singolare, il vivente al quale Derrida attribuisce il volto e la parola.
10 J. Derrida, «Il faut bien manger» o il calcolo del soggetto, cit., p. 28.
11 Ivi, p. 26.
12 J. Derrida, L’animale che dunque sono, cit., p. 188.
13 J. Derrida, «Il faut bien manger» o il calcolo del soggetto, cit., p. 27.
14 Ivi, p. 31.
15 Ivi, p. 22.
16 Ivi, p. 33.
17 Ivi, p. 24.
BIBLIOGRAFIA
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Id., «Il faut bien manger» o il calcolo del soggetto, a cura di S. Maruzzella e F. Viri, Mimesis, Milano-Udine 2011.
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Volpe A., Un esserci animale?, in «Liberazioni», n. 12, 2013, pp. 16-31.
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