Una recensione in controcampo

Nel cinema, il controcampo è un’inquadratura in cui viene presentato un punto di vista che, dentro la ripresa principale, restava tagliato fuori; è un modo di osservare a partire da un’altra prospettiva, spostando semplicemente l’asse dello sguardo. Una recensione in controcampo non andrebbe quindi intesa in senso polemico, proprio perché qui il “contro” indica “altrove rispetto al consueto campo di visione”: si tratta di un gesto più analitico che reattivo e, per questo, credo, più interessante. Allestire una recensione in controcampo significa, allora, non tanto limitarsi a esprimere un giudizio sull’opera o sullo spettacolo, quanto esaminare la posizione da cui li si guarda, evidenziando le condizioni di possibilità del giudizio stesso: chi parla? da dove? che teatro ci si immagina quando si impiegano determinate nozioni, per esempio quella di “classico”? È ciò che tenterò di fare con il Trittico della guerra di Gabriele Vacis, portato in scena dagli attori e dalle attrici di PoEM, compagnia torinese nata nel 2021, che ha debuttato lo scorso ottobre al Teatro Menotti di Milano – per la prima volta nella città – con Prometeo, Sette a Tebe e Antigone. Quello che vorrei emergesse da questa operazione è una serie di nuclei tematici – ne ho individuati otto – centrali per il teatro e spesso trascurati dalla critica contemporanea. Il Trittico della guerra diventa così un pretesto per riflettere, da un lato, sul lavoro di Vacis e della compagnia e, dall’altro, su questioni che certa critica tende a lasciare fuori dall’inquadratura. Beninteso, non ho la presunzione di esaurire tutti questi temi – al contrario, li abbozzerò solamente, in modo da isolare dei puntelli a cui aggrapparsi in vista di un dialogo a venire.
1. Il paradosso del classico
Il Trittico della guerra porta in scena, riscrivendoli, grandi classici: Eschilo, Euripide e Sofocle. Si sente spesso dire che i classici restano vivi qualunque cosa se ne faccia, ma subito dopo si tende a guardare con sospetto ogni tentativo di attualizzarli, condannando la loro riduzione a semplici fotografie del presente. La contraddizione si acuisce quando si riconosce – come è accaduto nel caso del Trittico, la cui efficacia emotiva è confermata dalle reazioni del pubblico, ogni sera più numeroso – il valore dell’identificazione e del coinvolgimento.
Il circolo vizioso nel quale si rischia di rimanere intrappolat* si crea proprio tra questi due poli: la fedeltà al testo e la capacità di produrre esperienza teatrale. Ma, in realtà, non è che una polarizzazione soltanto apparente: è il riflesso di una critica che, per quanto ammetta la vitalità del mito, si ostina a difenderne la presunta purezza originaria. Si dimentica così che la sopravvivenza dei classici non dipende affatto dalla loro integrità, ma semmai dalla capacità di contaminarsi: un Eschilo che non parla il linguaggio del presente smette di essere un classico e torna a essere un reperto sterile.
2. Riscrivere, sempre e di nuovo
L’assunto secondo cui i classici restano vivi qualunque cosa se ne faccia sembra smentito quando si criticano le cosiddette “strizzate d’occhio” al pubblico. Il cortocircuito che si genera tra la vitalità del classico – che implica riscrittura e attualizzazione – e la sua sacralizzazione sottintende una visione per la quale l’autenticità del testo si opporrebbe necessariamente al presente. Si tratta di un approccio problematico, perché non considera che ogni messa in scena, compresa quella “originaria”, comporta, per forza di cose, un atto interpretativo e, di conseguenza, politico.
Dietro la diffidenza verso la riscrittura – come se “attualizzare” volesse dire sempre e comunque “appiattire” – si cela un’idea della drammaturgia non solo conservatrice, ma pure ingenua, in quanto ignora che in tutte le epoche il mito ha subito traduzioni a partire da sistemi simbolici ogni volta particolari. La questione non è tanto parlare del presente, ma trovare forme per rendere la tragedia viva e capace di riaprire conflitti che continuano a riguardarci oggi.
Ridurre tutto a una presunta perdita di respiro drammaturgico equivale a sottovalutare la differenza tra fedeltà al testo – rispettare temi, contenuti e struttura della tragedia – e necessità di cambiamento. Mutare registro, linguaggio o situazione non tradisce il testo, dal momento che esso si tradisce da sé fin dall’inizio. Su questo punto mi soffermo più a lungo, perché è fondamentale capirlo come si deve. Lo farò seguendo la pista battuta da Jacques Derrida.
Ora, non esiste un’origine pura del senso, né un testo che preceda la sua interpretazione o traduzione. Ogni testo è da sempre in differimento, cioè in movimento tra segni, tracce e rimandi. Non c’è mai un punto zero del significato, una presenza piena o una voce originaria da cui tutto deriva – il che rende impossibile essere fedeli in modo assoluto. Il testo nasce tradotto e, per usare un facile gioco di parole, tradito. Il tradimento non è qui una perdita morale o estetica, ma la condizione di possibilità del senso. Tradurre – o tradire – è ciò che fa vivere il testo, che lo apre e lo fa circolare. Un testo che non fosse tradito sarebbe muto, chiuso, morto. Un esempio può aiutare. Lo ricavo, ancora, da Derrida e, precisamente, dal saggio Firma evento contesto presente in Margini della filosofia. Derrida osserva che pure una firma – atto di presenza e identità per eccellenza – è tradita a ogni occasione, dato che vale solo se può essere ripetuta, cioè staccata dal contesto e da chi l’ha prodotta. Del resto, una firma deve poter funzionare anche quando il suo autore e la sua autrice non sono presenti. Se funzionasse unicamente alla loro presenza, non sarebbe una firma: perderebbe, infatti, il suo valore giuridico e linguistico. Ma proprio questa possibilità di essere ripetuta, di essere separata dal contesto e dal soggetto, introduce una differenza, un’infedeltà – un tradimento, per l’appunto. In altre parole, la firma è autentica solamente se può essere falsificata. La sua forza è anche la sua fragilità, e lo stesso vale per il testo teatrale: per essere leggibile, deve potersi staccare e tradursi. Lungi dal far perdere il respiro drammaturgico, la riscrittura infonde aria tra le righe del testo, riattivandone le potenzialità.
È esattamente ciò che fanno Prometeo, Sette a Tebe e Antigone. Modificando ritmo, registro, linguaggio e contesto, questi spettacoli mettono in scena i classici non come reperti immobili, ma come corpi e conflitti viventi. Prometeo ribadisce la ribellione come azione sempre possibile; Sette a Tebe mostra la guerra fratricida come esperienza di domande morali e politiche che ci riguardano da vicino; Antigone rende concreto il potere affermativo e generativo del dissenso. Alla luce dei conflitti che attraversano oggi il mondo, dalla guerra tra Russia e Ucraina al genocidio in Palestina, i temi affrontati dal Trittico sono più che mai attuali. La riscrittura qui non sostituisce il testo originario, ma lo fa respirare, lo trasforma in materia viva, capace di toccare il pubblico e attivare nuovi sensi.
3. Un’emozione da poco?
È tipico di certa critica teatrale guardare con sospetto all’emozione condivisa, come se l’intensità affettiva fosse un espediente per ottenere consenso. Ma l’emozione non è automaticamente consolatoria: può essere una forma di sapere e, perché no, può stimolare la coscienza politica del pubblico attraverso l’esperienza comune della vulnerabilità e del dissenso. Quando si parla di “espediente emotivo” con tono svalutativo, si ammette implicitamente che la capacità del teatro di produrre emozione condivisa sia un difetto, mentre invece dovrebbe essere una delle sue funzioni originarie, soprattutto in un contesto tragico e comunitario. Il problema non è l’emozione provocata dallo spettacolo, ma il fatto che la critica, privilegiando la distanza rispetto alla partecipazione, rimanga intrappolata in un modello “razionalista” del pubblico. Modello che non sarebbe in grado di concepire la dimensione del vissuto come spazio dialettico. Eppure, il lavoro di Vacis e della compagnia – che, come detto, ha suscitato negli spettatori e nelle spettatrici reazioni intense e variegate – mira proprio a risvegliare il corpo politico e affettivo del pubblico, rendendolo partecipe del conflitto messo in scena.

4. Il “vecchio” Vacis
Di fronte agli obiettivi più politici e, forse, meno sperimentali dei nuovi lavori di Vacis, si potrebbero rimpiangere i begli anni Ottanta e Novanta, segnati dalla presenza del Laboratorio Teatro Settimo. Il riferimento a quegli “anni d’oro” suggerisce un giudizio estetico fondato su una fase storica ritenuta “autentica” e ormai perduta. Questa sottile nostalgia funziona, di solito, come tentativo di resistenza verso le nuove forme di teatralità collettiva e ibrida, legate – nel caso di Vacis – alla pedagogia e all’attivismo.
Si finisce così per valutare il presente alla luce di un passato idealizzato, senza interrogarsi su come la mutazione dei linguaggi e dei contesti renda inevitabile un diverso tipo di ricerca. Misurare il teatro contemporaneo con il metro di ciò che fu – gli “anni d’oro” della sperimentazione – significa rifiutare il presente, restando prigionier* di un’idea di autenticità che non regge più. Il nuovo non è necessariamente più debole: spesso è soltanto più incerto, più esposto, più fragile e, proprio per questo, più politico. La nostalgia per un teatro “forte” rischia quindi di oscurare le forme di forza che abitano l’instabilità, l’errore e la coralità imperfetta – ed è lì che si gioca la vera sperimentazione, non altrove.
5. Moralismo
Nella critica contemporanea c’è un passaggio ricorrente: quando non si riesce a leggere la complessità formale di un’opera, la si giudica sul piano morale. Si parla allora di retorica, di consenso sui social network, di buonismo. Ma questa postura moralizzante finisce per ridurre la riflessione politica del teatro a un cliché, compiendo – paradossalmente – la stessa operazione che intende denunciare: lo spostamento dell’analisi dal come al cosa, dal piano estetico a quello etico. Invece di interrogarsi sulle modalità tramite cui un’opera elabora il senso, ci si limita a valutarne la “correttezza” ideologica, come se il teatro dovesse rispondere a un codice morale più che a una ricerca formale. È una scorciatoia critica che converte una riflessione estetica in un giudizio di valore.
Il Trittico si espone, prende parola e posizione. Il suo “no alla guerra” non è un semplice slogan pacifista, ma un dispositivo per sondare il presente, e in particolare il modo in cui la violenza, la paura e la perdita si istanziano nei discorsi, nei corpi e nei rapporti. Le guerre evocate non sono solamente uno sfondo, quanto piuttosto un terreno sul quale gli attori e le attrici di PoEM innestano racconti personali, biografie e vissuti. È attraverso questa contaminazione tra mito e realtà, tra testo antico ed esperienza incarnata, che il contenuto politico si traduce in forma teatrale. La regia di Vacis, anziché rappresentare il conflitto, lo trasforma in relazione, costruendo una coralità che fa del dialogo, dell’ascolto e della vulnerabilità la propria grammatica scenica; grammatica che – giova ripeterlo – non mira a spiegare la guerra, ma a metterci in contatto con ciò che essa produce a livello linguistico, corporeo e comunitario.
6. Omettere la scena
Ho già accennato alla questione della dimensione emotiva che un certo tipo di teatro – quello di Vacis indubbiamente – mira ad attivare. Sorvolando sul pregiudizio implicito secondo cui l’emozione sarebbe qualcosa di “sospetto” o di secondario, questa diffidenza rivela un’altra falla più profonda: l’attenzione si concentra quasi esclusivamente sugli effetti – il coinvolgimento del pubblico, gli applausi, la commozione – e non sui mezzi che li rendono possibili.
Nel caso del Trittico, non bisogna trascurare l’impianto scenico, il testo – frutto di un lungo processo di riscritture e sedimentazioni, al quale hanno partecipato professionist* come Monica Centanni, illustre filologa classica – e il linguaggio teatrale che sostiene quel momento collettivo. La scena, infatti, è il luogo in cui si costruisce il coinvolgimento, grazie alla voce e alle sue modulazioni, alla gestione dello spazio, al ritmo della composizione e alla presenza del coro – calibrato con grande equilibrio rispetto ai dialoghi dei protagonisti, soprattutto in Antigone. Qui il coro non funge da banale commento o supporto, ma recupera la sua funzione originaria, ossia esprimere la partecipazione emotiva e il sentimento tragico dell’esistenza.
Se questi elementi – centrali nel Trittico – vengono persi di vista, la critica finisce per restare ancorata a un linguaggio impressionistico, capace di registrare le reazioni ma non di indagarne le cause. Ne consegue una perdita ermeneutica tutt’altro che irrilevante: difatti, viene meno la possibilità stessa di una lettura in grado di cogliere la drammaturgia come processo, come articolazione complessa di scelte formali e relazionali, e non semplicemente come illustrazione di un contenuto. Così, l’analisi corre il rischio di adattarsi a un discorso più “giornalistico” che, per l’appunto, critico.
7. Il pubblico: massa unificata vs corpo plurale
Ritorniamo sugli effetti. Considerare le sensazioni e i sentimenti che il teatro suscita richiede di focalizzarsi su un altro elemento fondamentale: il pubblico. Espressioni come “l’emozione arriva al pubblico” o “il teatro commuove il pubblico” tradiscono una visione appiattita, quasi meccanica e svilente, del rapporto tra scena e platea, nel senso che presuppongono un’idea di pubblico come corpo unico e passivo – un ricettore uniforme di emozioni e messaggi. Ma il pubblico non è affatto omogeneo: assume posture diverse, è plurale, dissonante. Lo è in particolare quello contemporaneo, e ancor più quello di PoEM, che riesce a far convergere in teatro persone differenti: una sala popolata non soltanto dal pubblico tradizionale – la rassicurante borghesia dello “spettatore colto” – ma anche da bambin*, adolescenti e studenti.
Il pubblico non è mai compatto. Gli spettatori e le spettatrici elaborano la risonanza tra mito e attualità, tra parola e vissuto in modo intimo, singolare – come è ovvio che sia. Ciò non implica, però, un’esperienza estetica frammentata o del tutto privata: l’emozione individuale si inscrive in una comunità percettiva, in una condivisione che non è mai esclusivamente consolatoria. Più che un accordo pacificante o una comunione sentimentale, il teatro di Vacis costruisce una dimensione corale di crisi, uno spazio in cui la sfera affettiva si fa terreno collettivo di interrogazione, non di rassicurazione.
8. Un’altra dialettica
Bisogna adesso specificare che il teatro che lavora sull’emozione o sulla coralità non elimina l’elemento intellettuale e dialettico; lo sposta, casomai, sul piano della relazione – e non del confronto astratto. È un altro pensiero, più incarnato, meno logico, ma non per questo meno stringente o politico. Forse la vera questione sta proprio qui: la critica continua a cercare la dialettica nelle parole, misurandola in termini prettamente discorsivi, mentre il teatro la produce nei corpi. La scena non “spiega” i conflitti, ma li fa accadere. Si può pensare, al riguardo, a quanto Aristotele osservava sulla catarsi, intesa come processo di risemantizzazione e chiarificazione intellettuale tramite cui il pubblico assimila e trasforma le proprie emozioni. L’identificazione o la partecipazione non sono pertanto residui ingenui, ma luoghi di un’altra forma di consapevolezza.
L’esperienza teatrale genera una conoscenza che non passa per la distanza, ma per la prossimità; una conoscenza fondata intersoggettivamente attraverso il contatto – o, mi verrebbe da dire, il contagio. Seguendo Jean-Luc Nancy, possiamo usare la nozione di contagio (cum tangere, “toccare insieme”) per mostrare che non si tratta solo di trasmissione patologica – nel caso di PoEM, questa consisterebbe nell’espediente emotivo, patico appunto, responsabile dell’“effetto consolatorio”. Al contrario, il contagio diventa un modo fondamentale dell’essere-insieme. In tal senso, la comunità, poco importa se reale o simbolica, è già da sempre contagiata, dal momento che non può esistere senza contatto. E allora, forse, sperare in un contagio di questo tipo, nel contagio trasmesso dal Trittico, è una delle cose più sagge che ci rimanga da fare – dentro e fuori il teatro.
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