La questione dell’identità. Gleichheit e Selbigkeit

Se poniamo in Parmenide l’inizio della filosofia occidentale, ed in particolare nel fr.3: “lo stesso è infatti essere e pensare” (τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι), possiamo intendere l’intero pensiero filosofico come un tentativo sempre rinnovato di cogliere la pregnanza e la ricchezza di queste poche parole ponendo il fondamento ora in uno, ora in un altro dei due poli. Sinteticamente, possiamo dire che, a partire dal pensiero greco, il fondamento sarà trovato nell’essere, mentre la modernità invertirà tale posizione con l’approdo alla “terraferma della soggettività”.
Il tentativo di Heidegger sarà, e in fondo è questo ciò che la sua filosofia cercherà sempre di fare, di concentrarsi su quello “stesso” (αὐτό) che porta il pensiero e l’essere a coappartenersi. Centrale è quindi all’interno di tale posizione la questione dell’identità. Ma come intenderla? Per il filosofo di Meßkirch viene in aiuto il linguaggio: la lingua tedesca intende l’identità secondo due termini, cioè come Gleichheit e Selbigkeit. La prima rimanderebbe all’identità che troviamo tra i termini di un’equazione, un’identità analitica e di pura equivalenza. Ciò che Heidegger cercherà sempre di pensare è invece la seconda, l’identità come Selbigkeit. Rispetto alla prima in cui i termini si perdono in una scialba uniformità, la seconda accezione rimanda al carattere intrinsecamente differenziale dell’identità, quella in cui i diversi, essere e pensiero, possono relazionarsi in uno spazio in cui è proprio lo scarto che li separa che ne permette la dinamica di relazione: das Gleiche, l’identico, è sempre l’identità della Leiche, cioè la staticità del cadavere, privo di ogni negatività e quindi di storia, il cui fondamento non può che essere la Selbigkeit.
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