Riflessioni per la presenza

Sul Trittico della guerra di PoEM
Simone Vero, Edoardo Amodio
2 dicembre 2025

«Fare la metafisica del linguaggio articolato significa indurlo ad esprimere ciò che di solito non esprime; significa servirsene in modo nuovo, eccezionale e inusitato, significa restituirgli le sue possibilità di scuotimento fisico, significa frazionarlo e distribuirlo attivamente nello spazio, significa prendere le intonazioni in modo assolutamente concreto restituendo loro il potere originario di sconvolgere e di manifestare effettivamente qualcosa, significa ribellarsi al linguaggio e alle sue fonti bassamente utilitarie, alimentari si potrebbe dire, alle sue origini di bestia braccata, significa infine considerare il linguaggio sotto forma di Incantesimo».

A. Artaud, La messa in scena e la metafisica

 

 

I.

 

Suggeriscono di non recitare

occhio si trasferirà occhio diverrà trascendenza

vedere se stessi accogliere l’Altro in me

ribaltare, rivendicare, moltiplicare lo sguardo

io vedo venendo invaso ma non incateno no

 

ma uno spettatore come noi

cosa potrà mai graffiare?

Angusto il destino di chi

crede di potersi contenere:

ricordare che Medusa è morta

 

l’Occhio tiranno di là dalle mura

e non c’è sepoltura per chi ambisce

a imperare sul Noi

e non c’è terra sul corpo

senza inchinarsi alla luce

 

quale io dunque

che cosa rimane

dell’atomo del frammento della sillaba?

Parola unica risuona in sala:

contaminazione

 

Tiresia esperisce dentro di me

chiasma non può non essere

nessun soldato ha una sua posizione

un suo ordine un suo Io:

matrimonio laico in divina luce

 

non serve prete aruspice oracolo:

necessitiamo di occhi liberati

Rivoluzione acceca anche nella sua umiltà

non c’è altare più degno

di un corpo vivo per una degna catarsi

 

e nel tempio rigurgita un unico salmo:

non osi nessuno sfidare la Luce

bandire, esiliare i contemplatori del cosmo

i feticisti dell’occhio monadico

cali pure su di loro il sipario.

 

 

Non si va a teatro per vedere niente di bello. Soprattutto se per bello si intende qualcosa che riempie, che distende, che rilassa, che calma e scuote – o meglio, che prima scuote e poi si riversa, lasciando il corpo in pace. La catarsi non funziona così: non è una confessione o una masturbazione. Figuriamoci, allora, se andare a teatro è un piacere. Certo, fanno piacere due risate ogni tanto per una cazzata, una risata insieme, qualcosa di leggero, una mezza lacrima, ma queste cose le posso fare da sola, nei quadratini della mia camera. Non è per questo che vengo a teatro. Ci vengo perché voglio convivere con le persone, perché voglio vedere come chi mi sta davanti ride e piange, e dire che potrei farlo anch’io, ridere e piangere, come chi mi siede vicino. Tuttavia, è strano, quando vado a teatro solitamente mi dimentico il corpo a casa: cala la luce, si apre il sipario, e mi distendo nella poltrona, mentre davanti a me si illumina, con un’altra luce, un mondo più vero di quello che vivo: è un olimpo di semidei dai visi lucidi, di lacrime tragiche e di argentei risi, illuminati e, per convinzione, veri. Ogni cosa che è, è nella luce di Dio.1 Ed io – mi sento quasi di troppo a chiamarmi in causa – nella penombra della platea non sono, non ho ragione di essere. Devo essere spettatrice attenta, certo, ma solo con gli occhi e con la mente, là dove la luce splende e trasfigura le carni di oggi nelle carni del mito, che sono poi marmi talmente lucenti che sembra si muovano. Sia lode dunque – sempre e soltanto – agli uomini di gloria.

Ma questa sera la luce non cala. Entro in sala, e rimango come di consueto sul limite tra il mondo vero e il mondo evocato. Loro si distendono sopra il palco come chi non ha vergogna di farsi vedere nel proprio privato. Io mi nascondo nell’orizzonte della prima fila. Mala luce non cala, e nei primi minuti di lungo silenzio – questa schiera chef ormano è simbolo di quel confine, è il limitare dell’evento performativo, e con questo evoca, crea una voragine, rende l’essenza più chiaroscurata –, in tutto ciò che contiene questo silenzio, mi viene quasi il dubbio che sia io a dover parlare. Fare, per forza, il monologo dello spettatore? Così illuminata, davanti alla schiera di sguardi, sono vulnerabile. E il loro sguardo mi chiede qualcosa.

Il monologo dello spettatore, se non è già iniziato, inizierebbe forse con una domanda retorica: cosa vedono gli occhi di chi sta sul palco, se riempiamo di luce la sala? Procederebbe poi spogliandosi di ogni retorica, siccome l’attore che sa ben fingere dice sempre il vero, finché non rimane un’evidenza sola: questi loro occhi mi riguardano. Sono questi occhi, in primissimo luogo, l’orizzonte che ci accomuna. Qui ci trovo non solo la similitudine che cerco a teatro, ma anche l’analogo, la differenza, il distillato di ciò che sono, ovvero siamo: uno, perché il nostro corpo è lo stesso corpo, sebbene gli occhi sono spesso la parte più disincarnata. Riportatemi, voi che mi state davanti, ad avere gli occhi sani. E loro lo fanno, perché la giovinezza dei loro occhi mi riguarda – siamo parte insieme della stessa ricerca, della soluzione al problema grande di stare al mondo – questo mi dicono mentre mi guardano e mi riguardano ancora. Nel loro parlarmi, mi chiamano, e non posso fare altro che rispondere «presente».

Mi dicono inoltre che non si può fare teatro senza uno spazio. È un’evidenza lo spazio della platea illuminato, che non si dimentica, che sostiene l’obbligo di essere guardato. È un’evidenza anche il palco vuoto dell’innecessario, perimetrato dai corpi che l’hanno falcato. È evidenza del fatto che è il corpo, il corpo presente, ad essere origine dello spazio stesso. Ma la presenza non è mai un modo semplice di stare al mondo. Anche per questo vado a teatro: per vedermi davanti una presenza più vera rifulgere, per vedermi anch’io, nel possibile, nella luce del vero. In verità, questa luce che tira fuori dall’ovvio le cose, nell’evidenza, mi fa capire. Sono presente: io esisto, e dall’altra parte esiste la guerra, la lotta, la tragedia. Nella mia esistenza tengo la guerra in altro posto, in un altro modo. Mi è capitato di piangere per la guerra, sì, ma solo a teatro. A questo punto la mia esistenza diventa problema: non posso più nascondermi – devono avermi vista mentre piango – e anche loro piangevano. Non ho più lo spazio di piangere in pace. Non era allora così evidente che fosse un problema, invece che benedizione, questo piangere insieme.

 

 

II.

 

Invoca Λόγος il tuono

il simbolo l’Umano

sembra soltanto un grido

madre ferita rapace in bile

sorella la spada alzata sul tempio

 

e invece non è

non può essere radice

di un Ego infecondo

che grida che strepita che scalcia

e nell’ascetismo s’infiamma

 

Altro ci dice Parola

il grido il lamento il salmo

devono condurre lontano

non-luogo non-io non-essere

materia che avanza metallo battuto

 

fango di sangue in eidetica vena

corpo vivissimo rintocca questo canto

divina sapienza di un orizzonte indiviso

ed il morto io con loro

corpo trasceso corpo di fiamma

 

la parola il nuovo petrolio

pozzi ovunque nella nostra realtà

e non inquiniamo certo

i criminali stanno oltre mura

e non si sanno più incarnare

 

significare in esistenza corporea

unica via unica verità unitario molteplice

il corpo vivo la vostra miniera comune

Fummo un noi nel canto

Fummo un noi nella carne

 

e non si osi negare in questo tempio

avanzare distinguo è affare politico

teatro è altro radicale

e nella cassa toracica del simbolo

il gong di morte non ha di che brillare.

 

 

Si va a teatro, innanzitutto, per vedere corpi presenti. Bisognerebbe forse dissezionare questa parola polisemantica, e ciò viene naturale con questi attori, così vicini a me nell’età e nel sentire. Un corpo presente è un corpo attento, proteso all’altro, al coro e alla cavea, è un corpo teso nell’espressione. L’espressione è il luogo a cui il corpo tende, diventando ora più vecchio, ora più giovane, ora più dolce e più aggressivo, ora un po’ più che umano, ma rimanendo sempre vivido corpo. Un corpo presente, come già detto, è un corpo che risponde a un appello: «presente». Si dice presente con ogni codice, fa un po’ di più che assolvere la mera funzione di stare al mondo: la incarna, e ne evidenzia le forme possibili e impossibili. Ci vuole tanto corpo per incarnare Prometeo, ed altrettanto per tenerlo fermo e incatenato. Ne serve meno per incarnare le donne del coro – il coro, nel collettivo, è un corpo solo – e si può essere più se stesse, col proprio dolore. Serve, infine, una coscienza che il corpo è fluido per diventare Tiresia, old man with wrinkled female dugs,2 per moltiplicarsi in Eteocle o in Polinice, per ripercorrere gli eoni di Creonte a ritroso. Insomma, il corpo attoriale si presta, più che il corpo del quotidiano, alle diverse luci e intensi del mero esistere. E capita spesso che anch’io mi svegli Musa o più comparsa, ma il teatro mi insegna a vivermi ogni stadio dentro alla carne. Perché non è, questo, il teatro del protagonista, ma dei diversi modi di darsi.3

Si finisce purtroppo a parlare sempre del proprio corpo, delle proprie questioni. Continua il monologo dello spettatore? O forse questo teatro dello stare insieme, questo trittico o triplice rito, mi legittima a sentirmi parte di una narrazione? Nel teatro della presenza ci sono anch’io. Perché il corpo è libero, di denudarsi, di fare salti di gioia, di cercare un abbraccio di compassione. Lo ricerco anch’io. E nessuno qui, dentro a questo teatro, cerca l’abbraccio di Dio: la preghiera – il lungo silenzio prima della battaglia nei Sette a Tebe – è un altro pretesto per stringerci insieme. Il corpo libero è anche corpo demistificato. Se la separazione platea-palco sembra quasi innocua, immaginiamola proiettata sulle sue implicazioni: ci sarà dunque una separazione tra individuo e storia, tra pagante e pagato, tra protagonista e controfigura. E non è questo un modo gentile di vivere.

Ma c’è dell’altro che mi legittima a sentirmi parte di questa poesia: l’armonia.

Prima è una voce, viene dal basso e bisogna quasi chinarsi per poterla ascoltare. Poi sorge, non solo nel timbro e nella durata, ma in tutte le direzioni allargandosi, facendosi grande e stratificata. Il canto del primo poeta diventa uno col canto del coro: è il ditirambo, è la cosa più semplice in questo mondo, è l’origine. In quella sola voce c’era armonia: è nelle onde che da sola genera, nel risuonare diversamente sopra le tempie e in gola. Ed è ugualmente armonica quando tutti cantano, e sembra che modulino insieme con lo stesso senso del ritardare il tempo, del fare varco dentro al volume. Capita a volte di sentire un trillo, una percussione inedita, un piede che striscia a tempo con il grande battito: è la volontà di uno di loro, uno soltanto, di cui la musica non si dimentica. Anzi, brilla. Immateriale, per com’è fatta, l’armonia avvolge la sala, ed è ambiente, è parola, è un’aria, ed è anche, sopra di tutto, sulla mia pelle e nella mia cassa toracica. Contribuisco anche io a far suonare la musica. L’armonia segreta nella disarmonia.4

Solitamente si esprime un giudizio di critica distinguendo una cosa in più parti. A teatro: la storia, la scena, il messaggio, il corpo, la musica, eccetera… Ma nel teatro le cose si esprimono insieme. È una questione di armonia (di disarmonia, magari), che ha nel corpo il suo perno centrale. Non ha senso dunque distinguere – ed è per questo che parlo allo stesso modo di tre spettacoli. Non distinguere, entro certi termini, nemmeno l’attore dallo spettatore. Io sono un corpo. Mi sento in merito di contribuire al lavoro sul corpo – sulla memoria, sul limite, sull’impossibile – che fa l’attore. Perché, ancora una volta, il teatro lo si può fare soltanto insieme.

 

 

III.

 

Questo noi suggerisce sgomento

l’inchino di fronte al Possibile ignoto

impossibile non percepire il divino

nelle carni di questo macello appese

ad una sillaba d’incarnata verità

 

tremava l’antico di fronte alla fiamma

invocava dei nomi pienamente vuoti

nella loro potenza di là dalle cose

moneta gettata nel pozzo

non rimbalzerà sulla pietra dell’architrave

 

ed incontrava un Altro nel suo inchino solenne

diversa natura altra carne in quel soffio

di narrata irrealtà ieratica

e sorse il costume la legge il giusto

in nome di un altro che da lontano ingialliva

 

nel dovere di essere nel suo non-essere

antinomia del tramonto santissima contraddizione

che nessun corpo poté mai accogliere

e l’idolo noumenico cadde

crepuscolo di risurrezione

 

ora c’è altro che cammina nel mondo

e cammina di grazia lo vedo avanzare

carezzo la carne di una parola offerta

respiro il silenzio di un simbolo rapace

di verità ben rotonda

 

di essenza incarnata nel noi

eccolo il mito che cammina tra il volgo

profumo d’incenso e arte verace

ecco la potenza che sa di materia

aurora di corpi di danze di cori

 

e in parola si uniscono in corpi trascesi

vedete anche voi lo spirito iterarsi?

sentite

percepite soltanto quel che muta

il nuovo che incede.

 

 

Il nostro mondo disconosce il mito.

Ad essere proprio onesti, il nostro mondo prolifera di nuovi miti, i Miti di Oggi, rimescolando già i miti di ieri. Sono questi, però, miti di superficie: miti che stanno sui reticolati degli alti palazzi, nelle planimetrie, nelle nuove strutture, ci piace pensare che un tempo, invece, il mito passasse nel mondo per penetrazione. «Tutto è santo, ragazzo mio! Non c’è niente di naturale nella natura. Quando la natura ti sembrerà naturale, allora tutto sarà finito. E comincerà qualcos’altro. Addio cielo!».5 Siamo davvero onesti allora: non conosciamo mai questo dio, né la sua preghiera, né il mistero che rende tale un mito. Anzi, lo disconosciamo proprio, diciamo di non averne nulla a che fare. Al mistero, alla parola non chiara, preferiamo una schietta bugia, per illuderci di aver capito. E pretendiamo che l’opera d’arte ci parli chiaro, che comunichi univoca, che ci sia il messaggio! «Questo vuol dire! Allora ho capito» – anche se l’opera ancora parla – «ho smesso di ascoltare, ho capito, è finito».

Non c’è messaggio, laddove ci sia mito.

Come si riconosce il mito? Solitamente dove c’è mito c’è una domanda. Il mito è una parola incerta, è parlare l’indefinibile, è il presente interrogativo. È come un oracolo, perché l’oracolo è una domanda che chiama la verità da dentro per venir fuori. Il mito – μυθός – è quindi parola di verità.

Che volto ha il semidio Prometeo? Chi lo tiene in catene? (Se stesso? Il governo del mondo? Quel poco di natura che ci rimane?) Che cosa vuol dire morire in guerra? Aver paura in guerra? Farsi guerra con lo stesso sangue, tra fratelli? I miei fratelli chi sono? Mi vogliono bene?

La risposta è, in un certo senso, altrove. Dietro ai vetri di una multinazionale, sotto le macerie, dietro una porta chiusa. Non è affatto estranea: è invisibile. Perciò la domanda va posta sempre in senso riflessivo: cosa mi è il mito? La risposta mi riguarda ancora. E la risposta è fluida e opaca e tarda a venire. Non viene. E lo spettacolo non si risolve con un’interpretazione: vive, continua a vivere finché fa parlare.

 

Erica, Andrea, Letizia, Enrica, Pietro, Lorenzo, Gabriele…

Tutti loro, con le parole di quest’ultimo, dicono che i nomi propri sono parole di verità. Vengono chiamati a rispondere fino all’ultimo, forse anche dopo il momento ultimo, dell’universo opaco e splendente che c’è in un nome.

Eteocle, Antigone, Laio, Eteoclo, Polinice, Tiresia e Ganimede…

Sono poco più che nomi. Nomi coperti di ori e di gesta mitiche, ogni respiro è un’impresa, una sofferenza tragica.

Mentre questi nostri nomi suonano comuni. Le nostre esistenze non hanno a che fare col mito. Se non che, forse, abbiamo anche noi un respiro, un respiro che non sempre soffia leggero: che molto spesso fatica a portare ossigeno, che si spaventa, che trema. Abbiamo mani che non hanno mai fatto la guerra. È proprio perché queste mani sono state linde di sangue che sono un problema. Hanno forse trattato un corpo con il privilegio di una dolcezza preclusa a chi fa la guerra. Anche questo è un problema. Mi chiedo allora se non lo siano anche le gesta prometeiche, i gesti di Antigone, i gesti ultimi di Giocasta. Un problema è tale finché la materia in esso non smette di fremere. Le nostre esistenze fremono. E le portiamo a teatro per farne mito: affinché la storia non si ripieghi su se stessa e non faccia male, affinché sul denominatore comune si fondi un modo comune di vivere. È nel diverso, nel disarmonico, che imparo chi sono. Viva dunque questa armonia. Duri insieme alla domanda – e queste parole sono una domanda che ancora continua…

È meglio finirla con questo monologo dello spettatore.

Ma non sono finita. Non sono giunta a un giudizio critico, non ho trovato il messaggio, non sono stata riempita. Eppure, io sono stata con loro a teatro tre sere di fila. Ci sono stata. C’era qualcosa che perdura ancora: è la presenza di cui continuo a parlare, sperando riemerga come era allora. Con la sua fitta luce che maggiormente risalta nell’invisibile. Con la sua chiamata, e con la responsabilità che comporta l’unica risposta possibile – «presente». Questo è il teatro in cui sono stata, il teatro che voglio: politico, etico, vivo.

È il teatro in cui credo.

Ed è bello davvero.6

1 Parafrasando Plotino, Enneadi V 3, 17-18.

2 T.S. Eliot, The Waste Land.

3 Per dirla con Spinoza, Etica.

4 C. Lispector, Acqua Viva.

5 P.P. Pasolini, Medea.

6 Le prose sono di Simone Vero, mentre le poesie di Edoardo Amodio.

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